«Non minacciate El Pais. Si cerchino altre soluzioni alla crisi». Questo l’appello lanciato dagli intellettuali iberici per impedire il temuto licenziamento di 149 lavoratori di una delle più importanti testate spagnole. Un grido d’allarme che potrebbe ben presto sfociare in clamorose proteste. Ma se Sparta piange, Atene non ride. Perché anche in Italia l’editoria soffre: 90 testate, infatti, sono a rischio e ben e 4 mila persone temono di perdere il posto di lavoro. Intanto Mondadori, Rcs, il gruppo Espresso e Caltagirone si attrezzano per il futuro.
Tradotto in soldoni: l’editoria del Vecchio Continente piange lacrime amare. Soprattutto la carta stampata. Tutto questo in attesa che il web raggiunga i “numeri” necessari. La parola d’ordine, a questo punto, è una sola: resistere. O almeno provarci.
Ma torniamo in Spagna. Le decisioni prese dai vertici di El Paìs sembrano avere una portata storica, per non dire traumatica: la proprietà, infatti, ha semplicemente deciso di…tagliare la “testa al toro”. Via un terzo del personale e riduzione del 30% dello stipendio ai “superstiti”. Il che significa: 149 lavoratori a casa (109 giornalisti e 40 tecnici) su un totale di 466 dipendenti (in cui vanno conteggiati anche 21 prepensionamenti).
Juan Luis Cebriòn, presidente di Prisa (gruppo editoriale che controlla El Pais), lo scorso 5 ottobre ha motivato così le decisioni dell’azienda: «Si tratta di una decisione irrevocabile e dolorosa. Non possiamo più permetterci di vivere così bene. È necessario ristrutturare i costi della testata e spostare le risorse verso il digitale». È passato appena un mese dall’annuncio e la situazione, in casa spagnola, non sembra migliorare. Ovviamente non sono mancate proteste da parte del comitato dai lavoratori, tra cui addirittura uno sciopero delle firme. Inoltre da domani e fino all’8 novembre è stato annunciato uno sciopero del 92% del personale. Ma dai dipendenti sono arrivate anche proposte meno drastiche come l’attivazione di prepensionamenti volontari e l’organizzazione di turni di astensione non retribuiti di tre mesi.
Per Manuel Gonzàles, portavoce dei lavoratori di El Paìs, la decisione di Cebriòn sarebbe frutto di una “occulta” quanto egoistica strategia societaria. «La causa dei licenziamenti non è da ricercarsi nel fattore economico. Cebriòn deve consegnare le nostre teste a Nicolas Berggruen [uno dei principali azionisti del fondo di investimento Liberty Acquisition Holding, ndr] a cui ha svenduto il controllo dell’azienda in cambio di uno degli stipendi più alti tra tutti i dirigenti europei» ha chiosato a muso duro Gonzàles
E al rappresentante dei lavoratori di El Paìs si è aggiunto, da ieri, l’appello di un nutrito gruppo di intellettuali spagnoli (tra cui Javier Marias, Fernando Savater, Mario Vargas Llosa, Jordì Garcia, Almudena Grandes), spesso protagonisti dalle colonne dello storico giornale in veste di commentatori. «Noi collaboratori del Paìs intendiamo manifestare le nostre inquietudini e il nostro malessere. Crediamo che questo modello di giornalismo non debba essere minacciato. Si cerchino altre soluzioni» hanno lamentato in coro.
A ben guardare ed a leggere con attenzione i conti, El Paìs, inteso come quotidiano in sé, non sembra poi così in crisi. Dal 2000 ad oggi ha totalizzato, infatti, ricavi per circa 850 milioni di euro. E ha un attivo di 1,8 milioni segnato nel primo semestre del 2012. Tuttavia la società che lo edita, la Prisa, ha al passivo 3,5 miliardi di debiti. E nel secondo trimestre del 2012 ha accumulato altri 53 milioni di perdite. Bisogna precisare, però, che la Prisa fa parte di un complesso societario molto ampio: è partecipata dalla Liberty Acquisition Holding (che nel 2010 ha la quota di maggioranza), dai gruppo bancari Santander e La Caixia, e dal colosso Telefònica.
Ma ora passiamo in Italia. Nel Belpaese le cose non vanno molto meglio. Almeno novanta le testate a rischio chiusura. E i posti di lavoro in pericolo sono oltre 4 mila. La “colpa”, manco a dirlo, è della solita crisi. I consumi si contraggono, la gente non compra più i giornali, le aziende vendono meno, quindi producono più bassi profitti. E di conseguenza gli investimenti nella pubblicità, linfa vitale dei giornali, languono.
Morale della favola: è “tempo di migrare”, o almeno di trasformarsi. E i principali gruppi editoriali italiani sembrano intenzionati a farlo.
La casa editrice Mondadori, per raccogliere pubblicità, si affiderà a Publitalia ’80, concessionaria per gli spot di Mediaset. Il tutto per razionalizzare i costi e ottimizzare le dinamiche intrasocietarie. Inoltre il presidente di Mondadori, Marina Berlusconi, starebbe pensando ad un nuovo manager per la divisione periodici. In “pole” ci sarebbe Ernesto Mauri.
Passiamo a Rcs Mediagroup, editrice del Corriere della sera. Da tempo si sta pensando ad un nuovo piano industriale, con particolare attenzione al settore del web. Le novità dovrebbero arrivare entro il prossimo mese dal nuovo ad, Pietro Scott Jovane, ex dirigente Microsoft. In discussione anche l’ipotesi di un aumento di capitale.
Poi c’è il gruppo Espresso. La società di Carlo De Benedetti, proprietaria di Repubblica, sembra fronteggiare bene la crisi. Nei primi 9 mesi del 2012 ha raccolto, infatti, un utile netto di 26,4 milioni. E il debito, rispetto al 2011, si è ridotto di 7 milioni: da 112 a 105. Tuttavia neanche in caso Espresso regna la pace. C’è da risolvere la questione Finegil Roma dove si preannunciano tagli del personale.
Infine passiamo al terzo editore italiano. Stiamo parlando del gruppo Caltagirone che ingloba Il Messaggero, Il Mattino e Il Gazzettino. Qui, a iniziare la “metamorfosi”, dovrebbe essere proprio la testata leader: Il Messaggero. Il quotidiano romano dal 9 novembre avrà un formato nuovo, più agile e “magro”, ma tutte le edizioni saranno full color. Sono stato rinnovati anche i vertici della Piemme, la concessionaria per la pubblicità.
Il tutto per aumentare i ricavi e le inserzioni. Ma a conti fatti, quale “ricetta” avrà la meglio?
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