Lavoro: insulta sua azienda su Fb, licenziato dipendente

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Facebook-ThumbSi sfoga contro i datori di lavoro sul proprio profilo Facebook e l’azienda lo licenzia. E’ accaduto in provincia di Torino a un dipendente della Comdata, societa’ di servizi di contact center, help desk e back office. La vicenda risale al marzo scorso, ma e’ stata resa nota soltanto oggi. Sul social network, il lavoratore si era lasciato andare a qualche commento di troppo, utilizzando un linguaggio colorato. L’azienda gli ha prima notificato un provvedimento disciplinare, poi lo ha licenziato. Ora, tramite la Cgil e uno studio legale, il lavoratore ha impugnato il provvedimento. Per i suoi difensori, il licenziato non intendeva offendere l’azienda.
Ricordiamo che con la sentenza n. 22129 del 25.10.2011, la Corte di Cassazione ha nuovamente preso posizione sulle condizioni che legittimano il licenziamento per giusta causa ed ha ribadita quanto già in precedenza stabilito in altre occasioni; la Corte, infatti, ha preso posizione – in maniera inequivocabile – su alcuni punti cardine del licenziamento per giusta causa o, comunque, per giustificato motivo soggettivo ovvero:

1) la tassatività delle condotte sanzionabili indicate nel codice disciplinare;
2) l’affissione e pubblicità del codice disciplinare;
3) l’esistenza di prassi aziendali consolidate e relativo onere della prova;
4) la effettiva valutazione circa la proporzionalità della sanzione.

La giusta causa del recesso
E’ opportuno ricordare, seppur brevemente, quali siano i requisiti essenziali della giusta causa di recesso così come stabiliti dal codice civile.
L’art. 2119 cod. civ., infatti, per aversi un legittimo licenziamento per giusta causa devono sussistere delle condizioni talmente gravi che ledono irrevocabilmente e irrimediabilmente il vincolo fiduciario che lega il datore di lavoro con il prestatore; si parla, a tal proposito, di una lesione talmente grave da non permettere “… la prosecuzione nemmeno provvisoria del rapporto di lavoro”.
E’ chiaro che si tratta di uno strumento estremo che entra in gioco ogni qualvolta la condotta del lavoratore sia antitetica all’attività aziendale: la giusta causa è, anche ontologicamente, la condizione netta di chiusura di un rapporto di lavoro, che il datore adotta per tutelare l’attività produttiva e, quindi, anche i livelli occupazionali.

Chiaramente, la giusta causa di recesso può consistere tanto in un unico comportamento doloso del lavoratore, quanto in una pluralità di comportamenti che da soli non sarebbero sufficienti a giustificare il licenziamento; ciò che accade molto spesso, infatti, è di riscontrare controversie in materia di lavoro aventi ad oggetto il licenziamento per giusta causa intimato a seguito di un’unica vicenda oggetto di procedimento disciplinare: di per sé l’intimazione di un licenziamento a fronte di un unico evento lesivo della reciproca fiducia non è illegittimo ma la controversia, eventuale, che ne deriverebbe ha quantomeno diversi margini di incertezza.

E’ chiaro, quindi, che solo l’analisi del caso concreto permette di capire se il licenziamento possa considerarsi legittimo oppure no.

Gli elementi della giusta causa
Per stabilire l’esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire quel carattere di “… grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario e la cui prova incombe sul datore di lavoro” (cfr. Cass. 21.9.2011, n. 19235), è necessario valutare sia la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, sia le circostanze in cui gli stessi sono stati commessi e sia, infine, l’esistenza di un elemento intenzionale nella condotta del lavoratore stesso.
La tassatività delle condotte sanzionabili e indicate nel codice disciplinare.
Il primo aspetto che fa sorgere alcuni dubbi interpretativi riguarda la necessità, o meno, che il codice disciplinare aziendale debba contenere tassativamente tutte le condotte non consentite e sanzionabili al prestatore di lavoro; la più recente posizione della giurisprudenza, a cui accede anche la sentenza in esame, ritiene (a buon diritto) che prevedere la necessità di un elenco tassativo delle condotte addebitabili al lavoratore sarebbe di per sé estremamente complicato poiché è sostanzialmente difficile prevedere tutte le condotte che possano, in diversa misura, ledere il vincolo fiduciario che lega il datore di lavoro al lavoratore.
Sotto un altro profilo, inoltre, non vi sarebbe neppure la necessità di dover indicare i casi più gravi (es. la realizzazione di un reato) poiché tali circostanze sono inequivocabilmente considerate, dalla opinione comune, come riprovevoli e – pertanto – sanzionabili.
L’affissione del codice disciplinare.
Ben diverso il ragionamento riferito alla effettiva affissione del codice disciplinare all’interno dei locali aziendali e comunque in luogo accessibile e visibile a tutti i lavoratori; in questo caso la mancata affissione del codice disciplinare comporta la nullità dell’intero procedimento che precede l’irrogazione della sanzione poiché impedisce al lavoratore la conoscenza delle norme che regolano il rapporto di lavoro.
Anche in questo caso, tuttavia, resta fermo quanto espresso più sopra circa l’esistenza e validità di un recesso per giusta causa intimato a fronte di una condotta la cui sanzionabilità deriva dal sentire comune e dalla sostanziale lesione del vincolo fiduciario.
Le prassi aziendali.
E’ comunque vero anche che, in molti casi, l’esistenza di prassi aziendali consolidate fa venire meno la sussistenza di una giusta causa di recesso; infatti il lavoratore può assumere inconsapevolmente un comportamento non propriamente ligio al dovere nel caso in cui tale condotta, mai sanzionata in precedenza, venga da tempo accettata dal datore di lavoro e divenga una c.d. “prassi aziendale consolidata”: l’onere della prova, ovviamente, cadrà interamente sul lavoratore il quale dovrà dimostrare che si tratti effettivamente di una prassi consolidata e non invece, come spesso accade, di un comportamento personale dallo stesso illegittimamente adottato.

La proporzionalità della sanzione
In ultimo, la valutazione da parte del giudice – nel caso di un’eventuale controversia – circa la legittimità del licenziamento per giusta causa, deve tenere conto della proporzionalità tra il provvedimento adottato da parte del datore di lavoro – il licenziamento per l’appunto – e la condotta tenuta da parte del lavoratore; il giudice, infatti, deve accertare che tale condotta sia stata effettivamente lesiva del vincolo fiduciario che sia stata talmente grave da non permettere la prosecuzione del rapporto.
In questo caso, l’onere circa la sussistenza della giusta causa cade interamente sul datore di lavoro che dovrà allegare tutti quegli elementi e circostanze poste a fondamento della sanzione espulsiva irrogata.

Il caso di specie
Nel caso di specie il ricorrente, commesso presso un supermercato, era stato licenziato per aver accreditato – sulla propria fidelity card – i punti conseguenti alle spese compiute da parte di terzi, con appropriazione dei premi messi in palio dalla società datrice di lavoro e destinati a premiare i clienti più assidui; la datrice di lavoro ha contestato al ricorrente la continuità della condotta e la conseguente irreparabile lesione del vincolo fiduciario con necessaria intimazione del licenziamento per giusta causa: da parte sua, il lavoratore si è difeso sostenendo che tale condotta rientrava in una prassi aziendale consolidata e che mai prima di allora era stata sanzionata.

La Cassazione ha dunque preso posizione su tutti gli elementi della fattispecie posta al suo esame ed ha, in primo luogo, valutato l’entità e la gravità della condotta addebitata al lavoratore; secondo la Cassazione, infatti, la Corte di Appello avrebbe omesso di valutare e di esprimersi in merito alla proporzionalità della sanzione irrogata dal datore di lavoro rispetto alla condotta del lavoratore ed agli effetti che la stessa avrebbe generato sull’attività produttiva. La proporzionalità della sanzione, si legge in motivazione, deve essere specificata nella motivazione del giudice trattandosi di una clausola generale (unitamente a quella di giusta causa di licenziamento) ed elastica, destinata ad essere mutevole nel tempo e che, pertanto, richiede una valutazione specifica di volta in volta: “… l’accertamento della ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, ovvero a far sussistere la proporzionalità tra infrazione e sanzione, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici”.

La Suprema Corte, seppur cassando la sentenza di appello per mancata valutazione circa la proporzionalità e graduazione della sanzione, ha poi rigettato il ricorso proposto dal lavoratore su due circostanze essenziali:

1) la prassi aziendale;
2) la tassatività della sanzione.

Il lavoratore, come visto, ha rilevato che il licenziamento è stato intimato a seguito di una condotta ritenuta prassi aziendale consolidata e che, comunque, lo stesso non era previsto come sanzione nel codice disciplinare.
A questo punto la Cassazione ha definito la questio seguendo quanto già espresso nell’orientamento maggioritario. In primo luogo, infatti, ha rigettato il motivo di ricorso in quanto il ricorrente non avrebbe in alcun modo allegato gli elementi di fatto da cui evincere l’esistenza di una prassi né, tantomeno, che la stessa fosse considerabile come “consolidata”; in secondo luogo, viene cassato anche il motivo relativo alla tassatività del codice disciplinare poiché, come già visto, non rappresenta un requisito necessario in quanto è sufficiente che lo stesso “… sia redatto in forma che renda chiare le ipotesi di infrazioni, sia pur dandone una nozione schematica e non dettagliata delle varie prevedibili o possibili azioni del singolo e che indichi, in corrispondenza, le previsioni sanzionatorie, anche se in maniera ampia e suscettibile di adattamento secondo le effettive e concrete inadempienze”.

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