L’iniquità giornalistica

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Chi si ricorda dell’equo compenso per il lavoro giornalistico? Per un paio di anni è stato il leit motiv dell’Ordine dei giornalisti e della federazione nazionale della stampa, panacea di tutti i mali

Invece di andare a vedere per quali ragioni i giornali chiudevano, il problema fu spostato sul compenso che i giornali stessi devono pagare ai collaboratori; tutto giusto, per carità, tantoché, forse, in un Paese normale di equo compenso non si dovrebbe parlare perché qualsiasi cosa iniqua non essendo equa non va; ma in Italia, qualche anno fa, no, serviva una legge.

E infatti legge fu: nel mese di dicembre del 2012 fu approvata la legge n.233 accolta con boati di consenso dall’Ordine dei giornalisti e dalla federazione. Il solito tripudio di dichiarazioni, slogan, commissioni, commissioncelle, comitati e comitatini, avanti c’è posto per tutti nel grande italico parterre del “facimme ammuina”.

Bene, di anni ne sono passati più di tre e, chiacchiere a parte, rimane una legge che, piaccia o non piaccia, è una legge; ma che non solo non viene attuata, anzi a ben vedere fatti i comitati e le commissioni è finita nel dimenticatoio generale. Così, mentre il ministero degli Interni si inventa l’ennesimo concorso per un posto riservato ad un giornalista professionista per il quale il compenso equamente previsto è zero e si iniziano ad invocare nuove e più restrittive disposizioni sul lavoro giornalistico, qualcuno ricordi a chi le invoca che una legge, condivisibile o meno, già esiste.

E allora, mentre i pochi giornali che non hanno chiuso continuano con le loro ristrutturazioni per non chiudere, sarebbe opportuno che si iniziasse seriamente a parlare di futuro per un mestiere la cui garanzia, non so in quali forme, rimane non solo un imprescindibile diritto per i giovani, ma un dovere per un Paese democratico.

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