«Informazione, le piattaforme digitali più forti dello Stato»

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di Beppe Fossati*

In questi giorni si parla spesso di informazione, tutela del pluralismo, giornalisti sotto attacco, autonomia editoriale. Ne parliamo con il presidente della “File”, la “Federazione italiana liberi editori”, Roberto Paolo, che riunisce molti quotidiani locali e periodici, anche nativi digitali, editi da cooperative o enti morali.

 

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nei giorni scorsi ha richiamato tutti all’importanza di tutelare la libera informazione nel nostro Paese. Lei crede che sia a rischio?

«La libertà dell’informazione è sempre da considerare a rischio, indipendentemente dalle fasi storiche e dalle contingenze. Chi detiene potere ha sempre l’interesse a tutelarsi dalla libera circolazione delle informazioni che quel potere potrebbe minare. Il Capo dello Stato ha detto una cosa di fondamentale importanza: “Ogni atto rivolto contro la libera informazione è un atto eversivo rivolto contro la Repubblica”. Quindi, è un atto eversivo anche qualsiasi tentativo di limitare il pluralismo dei mezzi di informazione, che è la principale garanzia di libertà».

 

Pensa a qualcosa in particolare?

«Penso anche a provvedimenti statuali che vanno in quel senso, come la norma liberticida voluta dall’allora sottosegretario Vito Crimi nella legge di bilancio 2019, che dispiegherà i suoi effetti tra un anno circa e prevede l’abolizione dei contributi pubblici ai giornali editi da cooperative o enti morali, cioè gli unici “editori puri” esistenti nel nostro Paese. Una norma che nessun Governo ha ancora avuto il coraggio di abrogare».

 

Pare di capire che quando parla di poteri che hanno interesse a limitare la libera informazione lei si riferisca ai poteri politici.

«Non solo. Oggi i veri poteri forti sono le multinazionali che possiedono gli algoritmi che fanno funzionare le grandi piattaforme di comunicazione online. I poteri politici fanno poco o niente per regolamentare la trasparenza e democraticità, anche economica, mi riferisco allo sfruttamento delle informazioni prodotte da giornali e giornalisti, di queste piattaforme».

 

Eppure, proprio in questi giorni, si è avuta una importante decisione dell’Agcom nei confronti di Google, riguardante la remunerazione delle notizie prese dai giornali del gruppo Gedi (Repubblica, Stampa eccetera). E la “Federazione nazionale della stampa” ha esultato.

«Purtroppo c’è poco da esultare. Nei fatti la decisione dell’Agcom porterà ad un esborso da parte di Google di qualcosa come 350mila euro l’anno, cifra che non salverà i bilanci di Gedi. Quello di cui nessuno parla, perché anche le istituzioni di categoria dei giornalisti lo ignorano, è che in merito al cosiddetto “copyright dei giornali” le piattaforme dei social o non rispondono proprio alle richieste degli organi di informazione locali, piccoli o di media grandezza, oppure offrono cifre irrisorie, nell’ordine di poche centinaia di euro l’anno, per compensare il saccheggio dei contenuti informativi prodotti da queste testate. Cifre insultanti. Di questi argomenti Ordine e sindacato dei giornalisti non si occupano per nulla. E comunque la decisione dell’Agcom con ogni probabilità non sortirà alcun effetto pratico per un’altra importante novità di cui però nessuno parla».

 

Quale?

«La settimana scorsa la Corte di Giustizia europea ha emesso una importante sentenza con la quale in sostanza dà ragione alle piattaforme online, Facebook in testa, contro il regolamento dell’Agcom sul copyright dei giornali. E questo rischia di vanificare del tutto ogni tentativo di far pagare alle piattaforme i contenuti saccheggiati a giornali e giornalisti. Con buona pace delle associazioni di categoria che ignorano i veri problemi, presi come sono esclusivamente a diramare comunicati di solidarietà per questa o quella emergenza, sempre identici l’uno all’altro quanto vuoti nella sostanza. E sempre con lo stesso effetto pratico».

 

Quale?

«Assolutamente nessuno».

 

Sembra di capire che gli Stati dovrebbero alzare la voce e mettere in campo provvedimenti più efficaci per regolamentare le piattaforme online.

«Purtroppo, le piattaforme hanno dimostrato di essere più forti degli Stati. Il web nella sua accezione iniziale era sinonimo di libertà, di pluralismo, di autonomia. Ma la realtà si è dimostrata molto diversa. I più forti sono soggetti che hanno solidissime basi, obiettivi precisi, riescono a condizionare l’opinione pubblica con i loro algoritmi che consentono di decidere se una notizia esiste o non esiste. La norma sull’equo compenso pensata dall’Unione europea per riequilibrare la situazione ha dimostrato la capacità delle grandi piattaforme di aggirare persino le leggi, di disapplicarle nei fatti. In buona parte del mondo i social network hanno deciso che se i giornali chiedono un equo compenso il modo più semplice è azzerarli, deindicizzandone i contenuti. Accadrà anche da noi. Nel silenzio generale».

 

Ma al Governo italiano ora il Parlamento ha demandato il compito di emanare una riforma dei contributi pubblici all’editoria. E da più parti si chiede anche una legge complessiva di riforma del settore. A che punto siamo?

«La riforma dell’editoria è una cosa molto difficile, l’ultima risale al 1981, ha oltre quaranta anni, dopo si è andati aventi con provvedimenti privi di organicità. Noi ci auguriamo che l’entrata in vigore del “Media freedom act” (altro argomento completamente assente dal dibattito pubblico sull’informazione in Italia)  possa riequilibrare sia il rapporto con le grandi piattaforme sia le modalità poco trasparenti con cui le pubbliche amministrazioni e le aziende pubbliche pianificano la pubblicità sui media. Per quanto riguarda invece i contributi diretti, il sottosegretario all’Editoria Alberto Barachini ha certamente il grande merito di aver intrapreso un percorso di dialogo e condivisione con le associazioni di editori. Anche noi come “Federazione italiana liberi editori” partecipiamo attivamente al tavolo di confronto per l’elaborazione delle nuove norme, tavolo che potrebbe produrre buoni frutti. Ma bisogna fare in fretta. È una corsa contro il tempo, perché a gennaio decadranno una serie di norme provvisorie ed emergenziali emanate durante la pandemia. E se non sarà pronto il nuovo Regolamento gli effetti per il settore editoriale, soprattutto per gli editori puri che realizzano la stragrande maggioranza degli organi di informazione locale, sarebbe un disastro. Anche su questi temi, purtroppo, Ordine e sindacato dei giornalisti sono totalmente assenti. Poi li sentiremo lamentarsi quando tanti piccoli giornali chiuderanno i battenti. Saranno lacrime di coccodrillo».

 

Ma alla fine è fiducioso?

«Non posso non esserlo perché ho un bambino di quasi tre anni. E sono sempre stato ottimista altrimenti non avrei assunto la carica di presidente del Consiglio di amministrazione di una piccola cooperativa giornalistica e la presidenza di un’associazione come la “File”. Siamo piccoli e siamo fragili, ma decisamente tenaci».

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