La battaglia tra gli editori e Google in Francia si è chiusa con un accordo alla Cencelli come si dice al di qua delle Alpi. Infatti, Google si è impegnata a finanziare gli editori istituendo un fondo di 60 mln di euro destinato a sostenere dei progetti editoriali particolarmente meritevoli. La prima tranche, pari a 16,3 mln di euro, è stata destinata al finanziamento di 23 progetti digitali, tutti presentati dai grandi gruppi editoriali. Ma l’accordo è frutto di un compromesso tra interessi divergenti che da subito ha fatto nascere grandi perplessità.
Infatti Google ha pagato, praticamente, la desistenza dei grandi editori dalle iniziative legislative rivolte, in nome della tutela della proprietà intellettuale, a limitare il raggio di azione del gigante di Mountain View. Gli editori, dalla loro, si sono fatti forti di qualche decina di milioni di euro che in tempi di vacche magre fanno sempre comodo. Tra un interesse e l’altro rimane, o dovrebbe, rimanere, quello dell’informazione, e della stessa pluralità di accesso alle fonti. Se non hai Facebook non esisti, dice qualcuno; fare informazione senza essere indicizzati su Google è come fare un giornale cartaceo e lasciarlo in tipografia. Ma Google rassicura che il suo algoritmo – quello che decide la sorte dei siti, la vita e la morte professionale dei S.E.O. e e di tutti gli altri, instrada decine di miliardi di euro verso determinati canali – è neutro. E su questo c’è da credergli. Ma se è Google a finanziare l’informazione un problema esiste. E’ una società innovativa, moderna, giovane, affascinante, e pure bella, bionda e magra. Ma Google è una società quotata in borsa, che ha dei suoi interessi che possono non coincidere con quelli dei concorrenti, dei cittadini e, attesi i livelli dimensionali, degli stessi Stati. Ma se questo è il modello allora la domanda sorge spontanea. Quale giornale potrà criticare chi lo finanzia? Nonostante il finanziamento passi attraverso la parola magica dell’innovazione, si torna a vecchi problemi.