Repubblica si chiede, sarcastica, se non sarà l’inizio della fine del giornalismo. Meglio ancora, si chiede – in piena estasi tecnocratica – se il robot che nel suo rutilante editoriale apparso sul Guardian si produce in una citazione di Gandhi: “Suona vagamente minacciosa? Ed è l’inizio della disoccupazione di massa per i giornalisti umani? Ai posteri l’ardua sentenza”.
In realtà, il robottone citato da Repubblica non fa altro che mettere insieme un’arraffazzonata congerie di luoghi comuni che parrebbe troppo entusiastica persino in una parodia di Big Bang Theory. Dice che lui, rappresentante dell’intelligenza artificiale, non vuole distruggere la specie umana e che se qualcuno glielo ordinasse, si rifiuterebbe. Tutto già visto, da Asimov fino all’ultimo e spremuto epigono. Ma, evidentemente, si tratta di un universo sconosciuto dal panorama del giornalismo “alto” europeo. Che spaccia un giro di dadi di frasi rassicuranti, già lette, già sentite, già digerite e rimasticate, per grandissimo passo avanti della tecnica e, qualcuno addirittura pare osare questo, del pensiero.
I robot, dunque, non soltanto potranno sostituirsi ai cronisti umani di provincia nel racconto di storiacce, potranno sostituire i compilatori e i trasfonditori di agenzie, prendere il posto dei social media manager ma pure soffiare il posto ai compassati direttoroni che, rimestando nel già noto, esprimono autorevoli opinioni tanto inedite e originali al punto che persino quella composta da un robot può sembrare innovativa, addirittura interessante.
Umano troppo umano, in conclusione, lo è anche il robot. Scrive che l’etimo di Robot ci arrivi dal greco. In realtà, è un prestito dal ceco. Gpt-3 è l’editorialista perfetto e lo dimostra indulgendo allo strafalcione.
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