Con la tecnologia digitale è possibile veicolare più programmi e servizi su una stessa rete. Le frequenze sono un bene limitato e rilevante; è su di loro che vive l’intero mondo dei servizi radiotelevisivi e telefonici. Tuttavia in Italia provvedimenti normativi sono stati frammentati ed insufficienti. Tale non curanza ha creato una sorta di “far west” delle frequenze. Quest’ultime sono state occupate abusivamente per anni, al di fuori di qualsiasi prescrizione, e persino oggetto di compravendite. Dunque i preesistenti piani di ripartizione non sono stati rispettati. L’avvento del digitale terrestre era, ed è ancora, un’occasione per mettere un po’ d’ordine.
Sono questi gli argomenti trattati nell’articolo di Andreina Tarallo, pubblicato nel numero 3-2011 della rivista Diritto ed Economia dei Mezzi di Comunicazione.
Il digitale terrestre è nato giuridicamente nel 1997, ma il vero atto fondativo è la legge n. 66 del 20 marzo del 2001 che introdusse, per la prima volta, la distinzione tra operatori di rete e fornitori di contenuti e di servizi. Lo scorporo dei due soggetti si riflette anche nei titoli abilitativi. Il legislatore prese questa decisione per aprire il mercato e aumentare il pluralismo. Infatti, fino al 2001 il mercato tv era appannaggio di pochi soggetti “verticalmente integrati”, ovvero che erano sia operatori di rete e fornitori di contenuti. Solo chi bastava a sé stesso poteva affrontare la sfida della televisione. Con il nuovo sistema si è cercato di rompere il vecchio “oligopolio” e di aprire il mercato a nuovi soggetti che magari sono solo operatori di rete o fornitori di contenuti.
La legge del 2001 ha anche calendarizzato l’avvento del digitale terrestre. Il cosiddetto “switch off” doveva avvenire a fine 2006. Poi si è passati al 2008. La revoca non bastò. Si è poi arrivati al 2012.
La legge, inoltre, ha affidato all’Agcom “l’ingrato” compito di regolamentare gli aspetti operativi del passaggio. Il regolamento sulla tv digitale è stato adottato dall’Agcom con la delibera n. 435/01/CONS che stabiliva una gradualità della migrazione verso la nuova tecnologia; una razionalizzazione dello spettro; regole chiare e trasparenti in modo da assicurare gli investimenti necessari.
Nel 2003 fu stabilito, sempre dall’Autorità, un piano di assegnazione delle frequenze su due livelli: nazionale e locale. Si pensò di creare un “catasto delle frequenze” e si individuarono delle aree pilota per “sperimentare” il passaggio. Nel 2005 fu anche approvato il Testo Unico sulla radiotelevisione. Tale regolamento recepiva la legge Gasparri del 2004 e assicurava un uso efficiente e pluralistico dello spettro, una copertura uniforme, un’attenzione ai soggetti locali, nonché una riserva per le minoranze linguistiche.
Tutte questi principi e regolamenti rimasero solo carta. Infatti l’Italia fu messa in mora per mancato rispetto del diritto comunitario. Nel 2006 fu avvita una procedura d’infrazione per 3 falle presenti nella normativa italiana. Le direttive della CE riguardavano il “quadro comune”, l’autorizzazione e la concorrenza nei mercati. Di conseguenza l’Agcom diede il via ad una nuova pianificazione anche alla luce dei nuovi accordi internazionali e delle nuove tecnologie disponibili.
Nel 2010 l’Autorità, con la delibera n. 300/10/CONS sancì il nuovo Piano di assegnazione delle frequenze. Tuttavia c’è da precisare che tale regolamento non è stato concretamente attuato, ma è solo un altro passo verso una transizione al digitale che sembra non voler arrivare. A complicare la situazione concorrono vari problemi: le “pressanti” disposizioni per la concorrenza e per i nuovi entranti che non si sono ancora visti; le aste per il cosiddetto “dividendo digitale” (le porzioni di spettro liberate dalla nuova tecnologia) sia interno che esterno; le interferenze con i paesi confinanti; le risorse da assegnare alle emittenti locali; la necessità di creare una banda larga.
Insomma, ancora tanti problemi da risolvere.
Egidio Negri
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