Editoria

Il non cambiamento di Crimi, la lunga storia dei tagli ai contributi all’editoria

Vito Crimi è il sottosegretario all’editoria che vuole abrogare i contributi alle cooperative giornalistiche. Ma, probabilmente a sua insaputa, non è il primo esponente di un esecutivo ad attaccare i giornali. Massimo D’Alema ha governato per poco più di 100 giorni, era il 1999; il nemico era, guarda caso, Repubblica, ma tutta la stampa sembrava dannosa ed inutile; sottosegretario con delega all’editoria un giovane Marco Minniti.

Il Governo D’Alema annunciò un decreto legge che prevedeva l’abrogazione dei contributi diretti in cinque anni. Poi il Governo cadde e fu scritta una riforma nel 2001. Ma al Governo Berlusconi i contributi non piacevano, e ogni anno nella legge di bilancio venivano introdotte ulteriori norme e normette studiate per mettere i bastoni tra le ruote degli editori e, soprattutto, creare un ginepraio che fu la base degli abusi nella percezione e nei controlli.

Nel 2006 il sottosegretario all’editoria del Governo Prodi, Levi, annunciò l’abrogazione dei contributi diretti; nel 2008 altro Governo Berlusconi; Tremonti con decreto legge abroga i diritto soggettivo; il sottosegretario all’editoria in coro con i dirigenti del Dipartimento argomentano che l’Europa ci chiede di eliminare il contributo all’editoria: siamo l’unico Paese dell’Unione che sostiene i giornali; non è così, lo dicono due ricerche scientifiche pubblicate, ma, intanto, Tremonti & C. cercano di esautorare il Parlamento su un tema con rilevanza costituzionale: è il momento dei decreti di delegificazione.

Intanto si inizia a scatenare la guerra santa contro gli editori, i finanzieri come militari del Kosovo, gli amministratori delle imprese editrici trattati come mafiosi. Cade Berlusconi ed arriva Monti, il salvatore della patria, il depositario della regola del rigore. Il professore fa più di Crimi, non azzera i fondi, abroga il contributo e rimanda l’attuazione ad un regolamento di delegificazione; per scriverlo c’è il prof. Malinconico, ex presidente della Fieg. Malinconico inciampa in un problema giudiziario e il nuovo sottosegretario Paolo Peluffo ritiene che sia opportuno che la discussione su questo tema la faccia il Parlamento e non il Governo. Il risultato è la riforma del 2012.

Mentre l’attuale sottosegretario all’editoria Vito Crimi è ancora impegnato nello studiare gli effetti delle scie chimiche e della fuliggine il prossimo segretario del Pd, Matteo Renzi, annuncia che nell’ipotesi in cui il suo partito vince le elezioni del 2013 abroga il finanziamento diretto all’editoria. Il Pd non vince, ma Renzi liquida con l’eleganza che lo caratterizza Enrico Letta e diventa Presidente del Consiglio dei Ministri.

Il sottosegretario all’editoria, Luca Lotti, annuncia l’abrogazione del finanziamento pubblico all’editoria. Poi il dibattito passa in Parlamento e viene approvata l’ennesima riforma che entra in vigore dal 2018.

Venticinque anni di annunci, che annunci non sono stati, in realtà; perché il fondo è passato da circa 800 milioni di euro all’anno a poco più di 50 milioni di euro all’anno; perché in questi anni decine di giornali hanno chiuso, spesso dopo violente iniziative giudiziarie, quasi sempre concluse con piene assoluzioni. Con migliaia di giornalisti che hanno perso il posto, la dignità. Tutto questo perché chiunque va al Governo non vuole troppa stampa, la reputa inutile, dannosa, straripante. I cinque stelle come gli altri. Ma tutto questo Alice, scusate, Vito Crimi, non lo sa.

Enzo Ghionni

Salvatore Monaco.

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