Le dimissioni dei due direttori de Il Manifesto, annunciate il 5 ottobre con un editoriale congiunto di Norma Rangeri e Angelo Mastrandrea ha inaugurato l’annuale crisi del quotidiano comunista. Nel dare l’addio, il direttore ha sottolineato come il giornale sia «parte attiva nei nuovi movimenti», quelli fatti di indignazione e bile verso il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Ma c’è più di un sospetto che questo ruolo sia stato scippato da Repubblica e soprattutto da Il Fatto quotidiano.
Il giornale fondato da Rossana Rossanda si sarebbe scollato dalla realtà e dismesso la divisa della lotta, per arroccarsi in una sorta di torre d’avorio. Ne è convinto Fabrizio Tonello, professore di Scienze dell’opinione pubblica all’Università di Padova. «Il Manifesto è un giornale fatto da intellettuali per intellettuali», ha detto a Lettera43.it, «e fatica a entrare in contatto con lettori giovani che sono, spiace dirlo ma è così, praticamente semi-analfabeti e a digiuno di esperienze politiche collettive».
Ma forse il segreto della crisi (attuale) de Il Manifesto sta banalmente nei conti e nella struttura redazionale. I giornalisti, tra gli 80 e i 100, sono davvero troppi per un quotidiano che, dopo i tempi d’oro degli Anni 70 in cui si raggiunsero picchi di 80 mila copie, adesso ne vende tra le 20 e le 25 mila. «La legge bronzea dei giornali», ha ricordato, infatti, Tonello, «è che ci sia un redattore ogni mille copie vendute, circa: vuol dire che il Manifesto non dovrebbe andare oltre le 25, 30 persone in redazione».
Antonietta Gallo
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