Il Governo e la Stefani 2.0

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Il pluralismo è cosa delicata e richiede attenzione, molta attenzione. Da anni è chiaro a chi si occupa del settore che il tema, declamato a gran voce da tutti, non sta a cuore a nessuno. Prendiamo, come esempio, questo ultimo Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri sulle agenzie di stampa. L’oggetto è l’accreditamento presso le pubbliche amministrazioni delle società che forniscono le informazioni alla politica e alla pubblica amministrazione.

I denari sono risorsa scarsa ed allora per ovviare alla scarsità la soluzione individuata è stata quella di alzare oltremodo l’asticella. E uno dei requisiti è il numero dei giornalisti assunti con contratto a tempo pieno ed indeterminato, almeno cinquanta, escludendo di fatto la grandissima parte dei soggetti che forniscono questo tipo di servizi. O, vedendola dall’altro lato, creando di fatto una situazione di monopolio, se tutto andrà bene di oligopolio nella fornitura dell’informazione primaria. In questa situazione si rafforza enormemente il rapporto tra chi informa e il decisore, in quanto chi informa dipende dal decisore. La scarsità dei denari di cui sopra porterà alla probabile scomparsa di tutte le società di dimensioni minori con evidenti ripercussioni sul livello di pluralità di fonti informative. Ma visto che all’epoca dei tweet e dei post bisogna sempre trovare uno slogan che giustifichi l’ingiustificabile ecco che arriva una nuova figura, il garante dell’informazione, ossia un soggetto che assicura la qualità delle informazioni ed impedisce la diffusione di fake news.

La delegittimazione dei giornalisti, la qualifica di pennivendoli, di servi al servizio del padrone è da anni esercizio diffuso, cinque anni fa c’era un sottosegretario all’editoria che ha fatto di tutto per farli accedere in massa al reddito di cittadinanza, facendo chiudere tutti i giornali più piccoli. Inneggiando al libero mercato, mentre il suo partito faceva esplodere la spesa pubblica. Ma addirittura nemmeno lui era arrivato al punto di pensare ad una figura che limitasse l’autonomia dei giornalisti, a questo punto ristretti, tipo in carcere, al punto da doversi preoccupare oltre che delle volontà dell’editore, delle disposizioni del direttore e del rischio di perdere il posto di lavoro anche delle indicazioni di un fantomatico garante, nominato dall’editore ma da sottoporre al vaglio del Governo. Manlio Morgagni non l’avrebbe accettato, e infatti non gli fu chiesto, ma questa è un’altra questione.

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