Mentre si continua a discutere sul commissariamento dell’Inpgi, il Parlamento approva la quinta proroga dell’abolizione dei tagli all’editoria. Ma che rapporto esiste tra le due misure?
L’istituto di previdenza dei giornalisti è in crisi da anni e le ragioni dell’impossibilità che i conti tornino sono molto semplici, non c’è bisogno di essere dei raffinati esperti di matematica attuariale. Il lavoro giornalistico è diventato, alla stregua di molte professioni intellettuali, precario, gli stipendi si sono drasticamente ridotti e i nuovi iscritti attivi sono pochi e, comunque, meno dei giornalisti che vanno in pensione. Gli istituti di previdenza hanno un bilancio complesso ma che si regge su principi molto semplici: le entrate sono rappresentate dai contributi versati e dai proventi della gestione del patrimonio immobiliare e mobiliare. Le uscite dalle pensioni versate e dagli oneri di gestione dell’istituto, in altri termini i costi per i dipendenti e per le strutture.
Nell’epoca del peggiore qualunquismo il dissesto si deve imputare a qualche privilegio e, quindi, la responsabilità dei problemi dell’Inpgi viene imputata alternativamente alle ricche pensioni dei giornalisti o agli stipendi dei dipendenti dell’Istituto. Ma in realtà la situazione non è sostenibile perché i giovani non vengono assunti e se vengono assunti hanno stipendi molto più bassi dei loro colleghi più anziani.
E anche in questo caso la responsabilità non può essere addebitata alle imprese editrici, i cui conti non reggono da anni. La soluzione del dissesto dell’Inpgi, perché di questo si deve parlare è duplice. O aumentare la platea degli iscritti, facendo entrare i comunicatori, un’ampia e variegata platea con molti iscritti attivi e pochi pensionati, o far rientrare l’Inpgi nel mare magnum dell’Inps, in modo che il disavanzo dei suoi conti venga annacquato da numeri enormi. In ambedue le ipotesi sarà lo Stato a doversi fare carico di una situazione che per ragioni costituzionali in uno Stato di diritto deve essere sostenuta.
Ci sarebbe, anche una terza strada, che è quella di una vera riforma dell’editoria che unisca pluralismo e industria culturale e che provi ad introdurre strumenti per sostenere in maniera equilibrata un settore stremato dalla competizione con gli over the top.
Non serve, o meglio non basta, la regolamentazione, l’asimmetrico potere di mercato non è risolvibile con strumenti volti a tutelare il mercato. Serve invece un intervento diretto, consapevole ed orgoglioso per ridare fiato ad un settore, quello dell’informazione e della cultura in genere, che da anni risente di una situazione di enorme incertezza che ha trovato l’apice nel taglio voluto dall’ex sottosegretario all’editoria, Vito Crimi, non a caso definito dal mai troppo compianto Massimo Bordin il gerarca minore. E che oggi appare un leader minimo sempre alla ricerca di un nemico da combattere, di un privilegio da abbattere, nella difesa di un vuoto di idee e di culture.
Il taglio dei tagli dovrebbe essere l’occasione per ripensare ad un modello che abbia come conseguenza la naturale sostenibilità dell’Inpgi e che non sia rivolto, invece, a risolvere per tre mesi il problema di approvazione di un bilancio.
Come al solito giusta e precisa analisi….grazie Enzo