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IL DIRITTO DEL GIORNALISTA A NON SVELARE LE PROPRIE FONTI SECONDO LA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

La libertà di espressione costituisce uno dei principi che permea il diritto dei mezzi di comunicazione, branca del diritto che non può essere agevolmente collocata nell’ambito della tradizionale ripartizione diritto pubblico–diritto privato, essendo destinata ad incidere tanto sugli aspetti privati, quanto su quelli pubblici della vita di relazione.
Proprio per la sua natura, il legislatore internazionale ha pensato bene di dettare direttive alle quali i singoli Stati, nel disciplinare il diritto dei mezzi di comunicazione ed i principi che lo costituiscono, devono attenersi.
Con specifico riferimento alla libertà di espressione va, innanzitutto, segnalata l’esistenza, nella Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del cittadino (firmata a New York nel 1948), dell’art. 11 per cui “la libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo. Ogni cittadino può, dunque, parlare, scrivere, stampare liberamente salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla legge”, o dell’art. 19 secondo il quale “il diritto di libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto a non essere molestato per la propria opinione, è quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni ed idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo alle frontiere”.
A sua volta, la Carta di Nizza, nel 2000, ha stabilito, in materia di libertà di espressione e di informazione, che “Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera”.
Lo stesso art. 10 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali (stipulata a Roma nel 1950 e ratificata nel 1955 con legge n. 848) riconosce ad ogni persona il diritto alla libertà di espressione specificando che tale diritto comprende “la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere interferenza di pubbliche autorità e senza riguardo alle nazionalità”. L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può, però, ai sensi del secondo comma del citato articolo, essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni previste dalla legge e che costituiscono “misure necessarie, in una società democratica, per la sicurezza nazionale, per l’integrità territoriale o per la pubblica sicurezza, per la difesa dell’ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, per la protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario”.
Sebbene il principio della libertà di espressione rappresenti un fondamento essenziale di una società democratica, obiettivi di interesse generale giustificano talune limitazioni che, se proporzionate al fine perseguito, rispondono ad un bisogno sociale imperativo.
Il margine di valutazione discrezionale di cui dispongono le Autorità competenti per stabilire dove si trovi il giusto equilibrio tra la libertà di espressione le limitazioni sopra menzionate, varia a secondo degli scopi che giustificano la limitazione di tale diritto e della natura delle attività considerate.
Nel caso in cui, attraverso la conoscenza delle fonti di un giornalista, le Autorità possano arrivare a capire chi, tra gli agenti dei servizi segreti, spifferi informazioni, appare, invero, estremamente difficile stabilire se sia prevalente il diritto del giornalista a tenere segreti gli atti che svelano le proprie fonti ovvero l’interesse pubblico ad identificare il soggetto che permette la fuga di notizie.
E’ il caso portato dinanzi alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo che, invece, è apparsa certa nell’affermare, con sentenza del 22 novembre 2012, che le autorità nazionali non possano ordinare, ai giornalisti, di consegnare documenti che permettano di individuare le loro fonti (attraverso la rilevazione delle impronte digitali sulla documentazione le Autorità contavano di identificare l’autore della fuga di notizie), né possano sorvegliare i cronisti con il solo obiettivo di scoprire colui che abbia fornito documenti dietro garanzia di anonimato, pena la violazione dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo che, come visto, assicura il diritto alla libertà di espressione.
Dall’analisi del provvedimento risulta però che la Corte abbia appoggiato le ragioni dei giornalisti avendo intravisto, dietro le stesse, la tutela di un interesse pubblico meritevole di salvaguardia. I giornalisti, a parere della Corte, godono di protezioni speciali non solo per consentire, agli stessi, di esercitare il diritto alla libertà di espressione ma anche e soprattutto per permettere alla collettività di ricevere informazioni di interesse generale. Le misure di sorveglianza disposte a danno dei giornalisti avrebbero avuto conseguenze dannose per una società democratica. La Corte ha, quindi, condannato lo Stato in causa proprio per non aver tutelato, in modo effettivo, l’anonimato delle fonti dei giornalisti ritenendo che l’adozione di provvedimenti da parte delle Autorità, accompagnata da misure coercitive quali le perquisizioni dei giornali, avrebbero avuto un effetto intimidatorio e deterrente sulla libertà di stampa. L’identificazione della fonte che forniva i documenti ai giornalisti non avrebbe risposto ad un bisogno sociale imperativo e, di conseguenza, l’ordine di consegna dei documenti sarebbe stato contrario alla Convenzione europea prevalendo, in tal caso, l’interesse del giornalista rispetto a quello statale.
In tal caso, a ben vedere, non si è trattato della prevalenza di un interesse privato su un interesse pubblico ma della prevalenza dell’interesse del giornalista ad esprimersi liberamente per offrire un servizio alla collettività sull’interesse delle Autorità inquirenti ad individuare “spie” nei servizi segreti dello Stato di appartenenza.
Ecco svelato l’arcano; difficile pensare che l’interesse del singolo possa vincere su quello della collettività a meno di ipotesi del genere in cui la tutela di un interesse privato cela, in realtà, quella, dominante, di un interesse pubblico.

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