Più qualità e più offerta. Era questo lo slogan con cui per anni ci hanno “venduto”
l’importanza del passaggio alla televisione digitale terrestre. Ci dicevano:
vedrete più canali e li vedrete meglio, in qualità digitale, senza più disturbi
video. Ci dicevano anche che, grazie al digitale terrestre, avremmo potuto
rinnovare da casa la carta d’identità, fare la spesa e compiere le operazioni
bancarie. Visioni fin troppo futuristiche, ma all’epoca della Gasparri sembrava tutto oro colato.
A distanza di qualche anno e con lo switch off ormai avvenuto in tutta la Penisola, le televisioni locali stanno facendo i conti con una durissima realtà: crisi della raccolta pubblicitaria, esuberi, contributi pubblici ormai ridotti all’osso e scarsa visibilità dovuta all’ordine numerico sul telecomando. Ma non solo. L’avvento di canali generalisti gratuiti, specie quelli della Rai e di Mediaset hanno, di fatto, contribuito ad una vera e propria voragine di telespettatori per l’emittenza locale mettendo seriamente a rischio il pluralismo nel nostro paese. Per carità, è tutto lecito, ma stiamo parlando di una lotta impari in quanto i colossi televisivi nazionali hanno infiniti archivi a disposizione da cui attingere per trasmettere contenuti. Questo non è possibile per le tv locali, non per il fatto di non possedere archivi di trasmissioni da mandare in onda ma perché il telespettatore, di norma, preferisce seguire programmi che già conosce. Questo è uno dei maggiori problemi dell’emittenza locale. Senza parlare poi della cessione della capacità trasmissiva, dall’assegnazione automatica del numero sul telecomando e degli oneri contributivi continuamente in crescita. Oggi si sente parlare di internet tv, DVBT2, tv on demand, hd e 3D. Ma le tv locali come faranno a sopravvivere a questi cambiamenti?
La strada sarà solo quella di offrire contenuti appetibili ai telespettatori. Ma con risorse scarse e calo di vendita degli spazi pubblicitari, sarà un’impresa ardua per molti.
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