Il Gip di di Padova, Lara Fortuna, con una sentenza del 29 settembre ha disposto l’oscuramento di quasi 500 siti web italiani al fine di tutelare il marchio Moncler, dietro richiesta della stessa casa di produzione. Oscuramento preventivo o forzatura dei termini giudiziari? È solo l’inizio.
Partiamo dall’accusa. Due risulterebbero le motivazioni di un intervento così incisivo, e cioè «introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi» e « vendita di prodotti industriali con segni mendaci» entrambi facenti capo agli artt. 474 e 517 del codice penale. L’esistenza dei siti gestiti illecitamente da cinesi dediti alla vendita dei piumini è un dato nella sostanza appurato. Eppure il provvedimento adottato stupisce per il numero dei domini coinvolti. Un’operazione di chiusura più che trasversale atta non solo a punire per una violazione riscontrata del trendmark, ma a quanto pare anche per la semplice citazione del brand aziendale, pur non riscontrando alcuno scopo di commercializzazione di prodotti falsi da parte dei siti incriminati.
La lista nera rispetterebbe cioè un criterio che farebbe della risoluzione DNS (Domain Name System, cioè l’operazione di conversione di un nome in un indirizzo web) la causa di tutti i mali. Questo perché il Gip avrebbe disposto il sequestro preventivo anche di un sito come monclerfans.com proprio per la presenza del marchio nel nome del dominio colpevole, forse, solo per aver riportato qualche considerazione positiva o negativa del prodotto da parte dei suoi utenti. L’avvocato Fulvio Sarzana, esperto di diritto applicato alla Rete e già distintosi per l’iniziativa “sitononraggiungibile.it” contro la delibera Agcom sul diritto d’autore online (n. 398/2011) spiega la faccenda in modo puntuale: «La richiesta giunta ai provider italiani in ordine alla ricerca attiva delle centinaia di siti internet da oscurare, contrasta contro l’elementare principio in base al quale i provider non possono essere considerati a tutti gli effetti gli sceriffi della rete».
Ma quali le conseguenze? In gioco ci potrebbe essere ancora una volta il rischio concreto di una limitazione della libertà di espressione su internet. Senza un’autorizzazione a monte potrebbe cioè non essere più possibile citare o esprimere opinioni su un determinato brand senza correre il rischio di essere oscurati. Stavolta sono i piumini ma magari la prossima potrebbe essere un marchio tecnologico a lamentarsi. Il caso Facebook di pagine cancellate perché incentrate sull’analisi di brand tecnologici magari troppo sensibili agli opinion makers ne è un esempio (il profilo di Redomnd Pie chiuso anche se piaceva a più di 74mila utenti per citarne uno). Per non parlare delle ripercussioni che un precedente simile potrebbe avere sul normale funzionamento di portali di commercio elettronico come eBay «che potrebbero essere chiamati a rispondere in concorso con coloro che vendono beni ritenuti contraffatti su internet, e vedersi cosi chiusi le pagine delle inserzioni attraverso lo strumento del sequestro preventivo», ribadisce Sarzana. Si spianerebbe così la strada a future sentenze che potrebbero andare a colpire qualcosa di più della pura e semplice “contraffazione” sul web.
Manuela Avino