Il Denaro non era solo un giornale; era uno spazio fisico di confronto aperto a tutte le voci della città. Un’arena dove confrontarsi, un luogo dove leggere, incontrarsi. I corridoi erano una galleria d’arte permanente in cui gli artisti napoletani avevano modo di esporre. Il Denaro era anche un incubatore d’imprese anti litteram, un laboratorio dove i pensieri diventavano iniziative; qualcuna ha avuto successo, qualcuna no. Al Denaro si parlava di cultura, di politica, di società, di letteratura e di economia. Al Denaro nascevano partiti politici, si immaginavano movimenti, azioni e reazioni.
Il Denaro era, però anche un giornale. Un giornale che assumeva, grafici, amministrativi, responsabili commerciali e giornalisti. Tutti giovani, pieni di entusiasmo e raccomandati solo dalla propria volontà di fare. Un modello di eccellenza napoletano che un giorno si è trovato a rispondere di una grave accusa: è tutta una truffa. E non c’è stato il modo di difendersi, di argomentare, perché chi sosteneva questa frase aveva tutti gli strumenti che i poteri di uno Stato di polizia attribuisce a chi può impunemente decidere sulle sorti delle persone.
Gli inquirenti, Guarda di finanza e pubblici ministeri già avevano emesso il proprio giudizio, che non ammetteva appello: questo giornale s’ha da chiudere, è tutto un inciucio. Il direttore ha provato a combattere, ma è rimasto isolato, la società civile si è incivilmente messa paura, il coraggio non è banale come il male. Il Denaro fallì, l’ignominia dell’insolvenza era diventato il marchio di infamia per un’iniziativa che che aveva proposto un nuovo modello di sviluppo economico meridionale, basato sul lavoro, sulla cultura, sulla partecipazione. E poi i sequestri, un modo per dire che nulla è di chi ha fatto, tutto va trasformato in fumo, e anzi si disperdano anche le ceneri, non si sa mai. In sordina il processo, iniziato tardi, il giudizio dei pm e dei finanzieri aveva già sentenziato la morte del giornale. E la sentenza. Tutto sbagliato. Il Denaro non era una truffa, il fatto semplicemente, non sussiste, qualcuno ha sbagliato.
Ruffo non ha avuto bisogno di andare fino a Berlino per trovare un buon giudice. Ma quel giudice non restituirà a Ruffo otto anni di inferno. E non potrà restituire a Napoli un giornale che era un caso nazionale. Quegli spazi, quei corridoi, quelle stanze dove la libertà di pensiero e di espressione trovavano la massima espressione rimangono cenere. Le vite cambiate, stravolte, violentate da azioni violente totalmente estranee ad uno Stato di diritto sono l’unica eredità della scelta di chiudere questo giornale. Perché non fu un errore giudiziario, ma una scelta consapevole.
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