IACOPINO: CARO MONTI, L’ORDINE DEI GIORNALISTI LO VORREMMO COSÌ

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Mi auguro con forza che il presidente del Consiglio abbia deciso di «riformare l’Ordine dei giornalisti, rimettendo mano all’accesso alla professione». Lo stiamo chiedendo da anni. La legge che ci regola è del 1963 e nonostante la lungimiranza di Guido Gonella, che la volle, registra ben più di un acciacco in un mondo come il nostro, nel quale ognuno degli ultimi 15-20 anni ha determinato sconvolgimenti profondi, che è riduttivo limitare alla “scoperta” del web. Abbiamo tentato di tutto, in Parlamento, sollecitando i colleghi eletti deputati o senatori, impegnando i rapporti personali di molti di noi, sostenendo ragioni di opportunità che tutti consideravano valide. Risultati? Nessuno, segno confortante che la presunta contiguità con la politica è, appunto, un’invenzione di comodo.
Se ci fossero compromissioni tra il mondo dell’informazione e i partiti, quella legge sarebbe stata cambiata da tempo, come è facile dimostrare facendo riferimento a quanto accaduto in altri settori, nei quali è reale il peso di lobby che tutelano interessi specifici. Solo che l’informazione dovrebbe essere un patrimonio comune, condiviso. Rappresenta, riecheggiando un fortunato slogan, l’alimento per la crescita democratica del Paese.
Proverò a offrire qualche spunto per una riflessione pacata su alcuni aspetti: l’accesso e la formazione, la deontologia e la rappresentanza, la professionalità. Prima, però, desidero parlare brevemente dei nostri doveri come giornalisti. Sono un presidente che non rivendica diritti, tentazione alla quale a tratti non riescono a resistere troppi colleghi, convinti che per esistere basti apparire con le loro dichiarazioni. Sport diffuso, nella nostra e in altre categorie. Poche parole dettate davanti a un taccuino o a un microfono per poi passare ad altro. E intanto, troppe volte entriamo nella vita delle persone facendone strame. In nome di un diritto che non c’è. Ha ragione il presidente Giorgio Napolitano quando ci chiede un’informazione “responsabile e pacata” a fronte di quella che troppo spesso infliggiamo ai cittadini. Sesso, sangue e soldi (assieme a sport e spettacolo) sembrano essere le nuove, insopportabili regole. Così non si ha rispetto per Melania Rea o per Sarah Scazzi, nessun riguardo per le famiglie di quanti subiscono le conseguenze di crimini o si rendono responsabili di reati. Tutto, nel nome dell’audience, diventa spettacolo in tv o voyeurismo diffuso. Le persone? Non contano. Un errore imperdonabile.

Il ministro della Giustizia, Paola Severino, che ha la responsabilità della vigilanza sull’Ordine dei giornalisti, non ha esitato a dichiarare la sua “consapevolezza che il 90% delle norme che riguardano le professioni” non ha alcun contatto con il mondo dell’informazione. E ha aggiunto che quando si tratterà di affrontare il problema degli Ordini ci sarà un tavolo separato. Avevamo chiesto proprio questo, senza registrare in verità alcuno scontento presso le altre categorie professionali, consapevoli della specificità del nostro mondo, che poco o nulla ha a che fare con avvocati, notai, ingegneri, architetti, psicologi o attuari. E veniamo ai punti chiave di una riforma auspicata.
ACCESSO E FORMAZIONE.
L’Ordine è diviso in due elenchi, professionisti e pubblicisti oltre a un “elenco speciale” (legato alla direzione di pubblicazioni specifiche) e al registro dei praticanti. Noi immaginiamo che tutti i nuovi iscritti – salvando ovviamente i diritti legittimamente acquisiti – siano chiamati a superare un esame che garantisca non al singolo, ma ai cittadini che chi opera in questo settore ha una preparazione specifica e adeguata. Non basterà fare un esame, come è ora, una sola volta (il mio è del 1976, ben oltre il secolo scorso in questo mondo), ma sarà obbligato a una formazione permanente. Occorre prendere atto di tre verità: il praticantato tradizionale nelle redazioni è episodico; il ruolo dei pubblicisti non è quello di chi collaborava saltuariamente con una testata, ma è diventato essenziale; le scuole (i Master universitari fatti d’intesa con l’Ordine) non sono riuscite a essere quella risposta che portò a farle nascere. Costano troppo. Ecco perché la via universitaria può essere una soluzione da affiancare alle altre, a patto però che ci si renda conto della necessità che nei corsi siano coinvolti giornalisti selezionati. Tutto, altrimenti, sarebbe limitato alla teoria, delegando la marginale esperienza pratica a chi tende – come troppo spesso avviene – a sfruttare gli stagisti, manodopera a costo zero, senza preoccuparsi di insegnare loro alcunché.

DEONTOLOGIA E RAPPRESENTANZA.
Sono stati ipotizzati dei consigli di disciplina che dovrebbero entrare in funzione entro il 13 agosto 2012. La loro composizione non è aspetto marginale. E’ condivisibile che se ne occupi un organo terzo rispetto a quello impegnato nella gestione amministrativa. Anche in considerazione del fatto che l’organo oggi competente, il Consiglio nazionale, composto da 150 giudici a seguito degli automatismi di legge, ha il sapore di un tribunale del popolo. Ma chi giudicherà dovrà essere consapevole di come si pratica questo mestiere, non per garantire attenuanti o offrire scappatoie ad alcuno, ma per evidenziare meglio le violazioni.
PROFESSIONALITÀ.
Non è certo l’ultimo dei problemi. Fare informazione o comunicazione impone valutazioni che conosce solo chi si occupa in modo professionale della materia, obbligato per di più a una formazione continua. Immaginare per esempio che nella pubblica amministrazione chiunque possa avere responsabilità dell’ufficio stampa significa precipitare in un non lontano passato in cui i cittadini erano considerati sudditi, non meritevoli di essere informati, ma obbligati ad accontentarsi di quanto la burocrazia si degnava di far sapere loro. Mi rifiuto di credere che possa essere questo uno degli obiettivi del governo.

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