E’ questo in nuce lo slogan della battaglia legale imbastita dalla Electronic Frontier Foundation (EFF), Ente statunitense che si occupa della difesa dei diritti degli utenti nell’era digitale.
Per la Fondazione, la chiusura del noto servizio di archiviazione di file (con sede ad Hong Kong) decretata a gennaio dall’Autorità federale della Virginia per conto dell’Fbi, in concomitanza con l’arresto del suo creatore Kim Doctom, non avrebbe precluso solo l’accesso ai dati in presunta violazione del Copyright Act statunitense. I 25 petabyte di contenuti caricati dagli oltre 150 milioni di utenti registrati ed ora blindati sul server Carpathia Hosting, con il beneplacito delle Major dell’intrattenimento, conserverebbero anche dati assolutamente leciti.
Come quelli dell’imprenditore e reporter dell’Ohio, Kyle Goodwin, che lo staff legale della Fondazione ha deciso di difendere per portare in tribunale un caso simbolico di danno collaterale arrecato all’attività aziendale di un utente “premium” (ovvero abbonato) servitosi del portale Megaupload come semplice piattaforma di stoccaggio di dati su base Cloud. Come si legge nel documento depositato presso la Corte distrettuale della Virginia, il cliente titolare di una web tv, l’OhioSportsNet atta a coprire eventi sportivi del medesimo stato federale, avrebbe caricato buona parte dei video da lui stesso filmati per condividerli con i suoi collaboratori prima di disporli per lo streaming sul web, al fine di coordinare un lavoro di montaggio collettivo. Video non più accessibili dal 19 gennaio 2012 da parte del legittimo proprietario ed ora sospesi nel limbo delle responsabilità rimbalzate tra Governo ed una società di hosting costretta a sostenere una spesa di 9mila dollari al giorno per la semplice custodia dei file, dal momento che Megaupload è impossibilitato a pagare l’affitto del server.
“Il signor Goodwin ha subito una perdita significativa per la propria attività, non per colpa sua – ribadisce il direttore della sezione Proprietà Intellettuale, Corynne McSherry – gli utenti innocenti di Megaupload hanno il diritto di veder restituiti i contenuti di loro proprietà prima che vengano distrutti”. Sarebbe questo il destino riservato alla cospicua mole di informazioni archiviate nei vari account confiscati, una volta che gli agenti governativi abbiano terminato le indagini in corso. Una decisione a cui sia l’associazione dell’industria cinematografica Mpaa sia lo stesso server Carpathia e i legali della difesa del Ceo del “Mega Clan”, Kim Doctom, si sono fermamente opposti anche se per motivi divergenti. A differenza delle due parti in causa interessate alla conservazione dei dati per avvalorare le rispettive tesi ai fini processuali, il servizio di hosting ha presentato un ordine di protezione alla Corte federale della Virginia che consenta l’innesco di una procedura di recupero dei file a rischio di cancellazione una volta giunti alla sentenza definitiva. Iniziativa peraltro già appoggiata da EFF attraverso il progetto MegaRetrieval nato per raccogliere un numero di consumatori sufficiente per portare avanti una class action a difesa delle vittime collaterali della “MegaCospiracy”. Una categoria di utenti al momento non riconosciuta dai giudici che hanno di fatto negato la funzione di online file-hosting o backup remoto sfruttata dagli users e rivendicata a propria discolpa dallo stesso sito sotto inchiesta. L’utente cd “comune” (free user non registrato) per gli inquirenti non avrebbe mai potuto scegliere di affidarsi ad una piattaforma che avrebbe provveduto a cancellare tutti i dati archiviati se non scaricati almeno una volta ogni 21 giorni (90 giorni era invece il limite temporale concesso agli abbonati al servizio). Considerazioni ora impugnate dalla Elecronic Frontier Foundation in una mozione che potrebbe tracciare nuovi ed importanti confini tra comportamenti leciti ed illeciti oltre che contribuire a dare una definizione più puntuale all’accusa generica di pirateria informatica su servizi di filesharing o cyberlocker specie in operazioni mastodontiche di sequestro cautelare di file online dove a farne le spese possono essere centinaia se non migliaia di netizens innocenti, ignari che lo strumento utilizzato potesse essere ritenuto fuori legge.
L’electronic Frontier Foundation non rinnega affatto i capi d’accusa contestati a chi si serviva della piattaforma per lucrare su contenuti protetti da diritto d’autore (art.18 dell’United States Code). Nell’atto di indictment del 5 gennaio scorso i procuratori sono stati molto scrupolosi nel motivare l’operazione di sequestro dei 17 domini web facenti capo alla piattaforma: “Megaupload non può essere considerato come un semplice fornitore di file hosting. Il suo scopo è quello di creare una rete illecita di distribuzione di opere protette e i gestori erano pienamente consapevoli che, almeno in parte, il materiale diffuso attraverso Megaupload violava le norme sul copyright e, ciò nonostante, continuavano a diffonderli”. D’altronde è il dolo a rappresentare il nodo della responsabilità penale pendente sui nove gestori del portale (oltre alle società Megaupload Limited e Vestor Limited) che secondo l’accusa avrebbero arrecato all’industria del Copyright un danno pari a 500milioni di dollari per profitti in entrata pari ad altri 175milioni lucrati su contenuti protetti, arrivando a coprire circa il 4% del traffico mondiale di dati su internet, con una media di 50milioni di visite giornaliere. Secondo i giudici sarebbero 150 i milioni sottratti al mercato legale dal Clan capitanato da Kim Doctom solo sul fronte degli abbonamenti premium ritenuti in buona parte illeciti, mentre 25milioni sarebbe l’importo guadagnato attraverso la vendita di spazi pubblicitari. Numeri da capogiro che però rischiano di mettere in un calderone unico imputazioni per reati penali e diritti di consumatori ignari delle condotte illecite altrui ma di fatto “sacrificati” alla causa del copyright.
Un pericolo che la Electronic Frontier Foundation intende scongiurare nella sua missione volta a tutelare gli utenti della rete che usufruiscono degli strumenti messi a disposizione da internet per scopi di condivisione privata pur sempre leciti o come nel caso di Mr Goodwin per supportare ed implementare il proprio business fondato su dati da lui stesso creati. Un distinguo non irrilevante.
Manuela Avino