La recente vicenda della cessione da parte della Gedi dell’Espresso richiede qualche riflessione.
La prima domanda concerne la strategia della famiglia Agnelli nel settore editoriale. Infatti, fino a questo momento, la politica seguita sembrava chiara, abbandonare le edizioni locali per concentrarsi sulle prestigiose testate nazionali puntando in maniera decisa sul digitale. Questa scelta sembrava in linea con alcune indicazioni che provengono dai mercati internazionali e che vedono la stampa locale destinata a ruoli sempre più marginali sotto il profilo delle quote di mercato premiando, invece, le imprese di informazione che riescono a diventare leader sotto il profilo della qualità.
Sono affermazioni tutte da confermare su un mercato come quello italiano, caratterizzato dal vincolo linguistico. Ma, intanto, in questa prospettiva, apparivano coerenti le cessioni di una serie di quotidiani locali che erano state l’ossatura della crescita del gruppo di De Benedetti nei decenni scorsi.
Molte più perplessità circa la coerenza nascono dalla decisione di cedere un periodico prestigioso e di grande qualità come “L’Espresso”. La seconda domanda riguarda, invece, l’atteggiamento dei dipendenti del gruppo Gedi e del settimanale venduto. Infatti, se sono chiaramente legittime le perplessità circa il mantenimento dei livelli occupazionali, anche tenuto conto dei precedenti di alcuni quotidiani locali ceduti, caso emblematico quello de “La Città” di Salerno, non si riesce a comprendere la denuncia circa la libertà del giornale.
La società acquirente sta effettuando importanti investimenti nel settore editoriale e ha come socio di riferimento Danilo Iervolino, un imprenditore che sta diversificando la liquidità generata dalla cessione di un’azienda. Probabilmente non un editore puro in senso stretto, ma sicuramente un soggetto con molti meno interessi da tutelare della famiglia Agnelli.
Certo la cessione è avvenuta senza informare il direttore e la redazione; ma questo fa parte, da sempre, dello stile di un gruppo industriale che non era certo ignoto ai giornalisti del gruppo Gedi. Le questioni di tutela del lavoro che risultano chiaramente centrali andrebbero tenute distinte per comprendere fino in fondo le dinamiche dell’editoria italiana e per difenderla in un mercato che rischia di travolgere tutto. Per questo è necessaria l’attenzione che merita il pluralismo come principio e non come slogan.
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