In una lettera inviata venerdì scorso ben cinque Gruppi di interesse sulla privacy statunitensi hanno invitato due rappresentanti del Congresso a tenere un pubblico incontro per discutere i punti critici della nuova policy annunciata da Google. Una normativa che, da questo giovedì, consentirà a Big G di beneficiare dell’uso combinato dei dati degli utenti i cui profili verranno associati ad un totale di 60 servizi distinti offerti “gratuitamente” dalla piattaforma.
Finora la questione è stata affrontata dalle Autorità competenti tenendo solo udienze “riservate” con il colosso guidato da Larry Page. Proprio per oggi era previsto un secondo meeting a porte chiuse tra il gigante della ricerca e la Presidentessa della commissione House Energy and Commerce Committee, la Rep. Bono-Mack (R-Calif.), affiancata da un altro membro del Congresso il Rep. Butterfield (D-N.C.).
I leader dei 5 gruppi capitanati dal centro di ricerca per la privacy, EPIC, hanno chiesto non solo di indire un’udienza pubblica ma hanno anche invitato il Congresso a “sospendere i cambiamenti dei termini d’uso del servizio di Google previsti per il 1° marzo fino a quando (1) non verrà aperto un dibattito (2) la FTC non abbia espresso un giudizio su di un’eventuale violazione dei patti sottoscritti con Google”.
Una richiesta che si fa ancora più urgente all’indomani della sconfitta incassata da Epic (e a cui avrebbe già fatto appello) che si è vista respingere dalla Corte federale di Washington DC la propria denuncia depositata contro la Federal Trade Commission, nel tentativo di indurre l’Agenzia ad intervenire contro Google per la violazione di un proprio ordine esecutivo. Vale a dire l’impegno che obbligava il colosso della ricerca a non cambiare le modalità di condivisione dei dati raccolti senza prima l’esplicito consenso degli utenti. Il Giudice Amy Berman Jackson ha ribadito, nella sentenza, che la Corte non era autorizzata ad impugnare le decisioni esecutive della FTC in quanto trattasi di un accordo pattuito tra la stessa Commissione e Google.
I giudizi sembrano dunque essere sospesi come in un limbo, un “non luogo” dove le contrattazioni “bilaterali” risultano avere la meglio rispetto ad un confronto aperto tra più parti civili.
A rendere il quadro ancora più singolare ci pensa, seppur indirettamente, un articolo del Washington Post. Il giornale fa luce sugli enormi investimenti sborsati dal colosso del search engine nelle sue tattiche di lobbying, pari a 10milioni di dollari solo nell’ultimo anno, giungendo a raddoppiare il fondo di donazioni politiche di circa 836mila dollari. Un impegno di risorse non indifferente ma che diviene certo ordinario una volta riferito ad una grande Compagnia più volte bersaglio dell’Antitrust Usa ed Europeo. Non deve dunque destare tanto scalpore il fatto che un ex membro del Congresso come Susan Molinari(R-N.Y.) (già nota lobbista per colossi come Verizon Communication) sia stata nominata da Google, giovedì scorso, capo del proprio staff nella sede di Washington DC. Come pure ordinaria deve essere ritenuta la circostanza che fa dell’ex Ceo di Google, Eric Schmidt, anche un consigliere economico alla Casa Bianca, per non parlare del caso “fortuito” che il capo della Global Public Policy di BigG risulti essere un ex vice capo dell’Ufficio Tecnologia dell’Amministrazione Obama. Coincidenze, intrecci, che potrebbero far sorridere dall’imbarazzo alcuni o far perdere l’aplomb ad altri. E’ il caso di Gruppi come Epic, Center for Digital Democracy, Consumer Watchdog, Public Interest Research Groups e Consumer Federation of America, che non hanno esitato a manifestare il proprio sconcerto verso i cambiamenti in atto nella policy di Google volti, secondo loro, ad ottenere una profilazione più dettagliata degli utenti e dunque ad incrementare il già lucroso business delle inserzioni pubblicitarie.
Un’ipotesi che risulterebbe avvalorata dalla richiesta dell’apertura di un’indagine da parte di tre membri del Congresso, dall’Unione Europea (Articolo 29 e Cnil), e da 36 Procuratori generali Usa.
Eppure lo stesso approccio “flessibile” dimostrato dal Governo Obama con la recente previsione di linee guida volontarie per la tutela della privacy degli utenti, estese all’industria dell’advertising e alle relative compagnie web (Google incluso), non sembra andare oltre le buone intenzioni di principio. La stessa introduzione dello standard “Do Not Track”, il pulsante che dovrebbe dotare tutti i browser web di una funzione anti-tracciamento universale per la navigazione online a garanzia dell’anonimato in rete dei netizens, verrebbe di fatto affidata alla discrezione delle compagnie che lo attiverebbero sempre in base ai propri termini d’utilizzo.
Non è un caso se colossi del business delle inserzioni pubblicitarie online come Google, AOL, Yahoo!e una Software House come Microsoft, abbiano subito aderito all’iniziativa.
Intanto il 1° marzo è ormai alle porte senza che siano state date risposte chiare e definitive sulla legittimità o meno della policy sulla privacy annunciata da Big G.
Manuela Avino
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