GOOGLE E FACEBOOK DEVONO PAGARE. LA FRANCIA CHIEDE I SOLDI PER IL TRATTAMENTO DEI DATI PERSONALI

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Esiste un detto che da qualche anno a questa parte va molto di moda in ambito hi-tech, recita più o meno così: “Se non stai pagando per un prodotto, allora il prodotto sei tu”. Il motivo è piuttosto chiaro, i servizi offerti da colossi del Web come Facebook e Google sono gratuiti per centinaia di milioni di utenti, eppure le due aziende macinano ogni anno miliardi di dollari. Oggi, grazie al presidente francese Hollande, questo famoso detto potrebbe finire per essere modificato in: “Se non stai pagando per un prodotto, allora o tu sei il prodotto, oppure sei un dipendente inconsapevole.”

Andiamo con ordine. Questa storia comincia nella giornata di venerdì, quando il goveno francese di Francois Hollande fa pervenire ai piani alti di Mountain View un rapporto di 200 pagine commissionato durante l’estate a due esperti fiscali, Pierre Collin e Nicolas Colin. Tra innumerevoli dati e tecnicismi, il senso del rapporto è piuttosto diretto: compagnie come Google, Facebook, Apple e Amazon fanno una montagna di quattrini accumulando informazioni personali condivise dagli utenti. In Francia, in particolare, Google rastrella qualcosa come 1,5 miliardi di euro l’anno in introiti pubblicitari, senza sostanzialmente pagare alcun tipo di tassa sul territorio francese. Sarebbe dunque ragionevole fissare una sorta di imposta sull’utilizzo dei dati utente che sia direttamente proporzionale al numero di utenti iscritti a un determinato servizio.

“Una simile tassa” si legge nel rapporto “sarebbe giustificata dal fatto che gli utenti di servizi come Google e Facebook, mettendo a disposizione le informazioni personali necessarie a vendere pubblicità, di fatto, stanno lavorando per queste compagnie senza ricevere alcun tipo di salario”

In poche parole: se le grandi compagnie del Web vogliono macinare profitti sfruttando i dati degli utenti francesi, devono pagare.

La proposta è sicuramente interessante, ma presenta diversi punti deboli. Innanzitutto, bisogna considerare che una simile imposta sarebbe piuttosto difficile da introdurre, richiede una preventiva collaborazione internazionale e un braccio di ferro con i colossi del Web (e di Wall Street) che potrebbe risultare impossibile da superare. Ma anche volendo sorvolare sulle questioni tecniche, questa imposta (che Hollande intende introdurre entro il 2014) va a sollevare una questione che nonostante anni di ferventi dibattiti è ancora lontana dall’essere risolta: se un utente accetta le condizioni d’uso di un servizio, e queste condizioni d’uso stabiliscono la possibilità per i gestori del servizio di accedere alle informazioni personali, può poi a posteriori richiedere che questi dati non vengano utilizzati?

Google per ora ha comunicato di stare leggendo il rapporto, sottolineando che “Internet offre immense opportunità di crescita economica e impiego in Europa, e noi crediamo che le politiche pubbliche dovrebbero incoraggiare questa crescita.” Ma la posizione delle grandi aziende del web è da tempo piuttosto chiara: no, gli utenti accettano di condividere le proprie informazioni e in cambio ricevono gratuitamente servizi di qualità. Fine della faccenda.

Molti però la pensano in maniera diversa, e non solo il governo francese, che ha dichiarato esplicitamente di non voler diventare “un paradiso fiscale per i colossi web”, ma anche l’OCSE che secondo il quotidiano Le Figaro avrebbe intenzione di presentare una propria proposta al prossimo G20, allo scopo di arginare la cosiddetta “ottimizzazione fiscale”, ossia la tendenza di aziende come Google, Facebook, ma anche Ryanair , a fare profitti in diversi paesi per poi pagarne le relative tasse nel paese a fiscalità agevolata in cui hanno stabilito la propria sede.

In questo senso, la proposta di una sorta di tassazione sugli introiti relativi ai dati personali ha senso. L’errore di Hollande (o di chi ha stilato il rapporto) è stato piuttosto scegliere di descrivere il rapporto utente-servizio web come una sorta di rapporto di lavoro non retribuito. Se davvero gli utenti stanno prestando una qualche opera a servizi come Google, allora a una tassa sull’utilizzo dei dati personali dovrebbe essere affiancata una sorta di piano retributivo. Il che appare quantomeno assurdo.

Così assurdo che c’è già chi ha pensato a una soluzione simile. In uno studio pubblicato lo scorso maggio, il direttore di Social Computing Research Group, Bernardo Huberman, aveva ipotizzato una sorta di borsa dei dati personali , in cui ai dati sensibili di ogni utente sia dato un valore monetario a seconda di come questi gestisce la propria privacy online.

Insomma, a mano a mano che il mercato dell’advertising personalizzato cresce, diventa sempre più evidente come le informazioni personali che fino ad oggi abbiamo disperso con tanta noncuranza, siano una valuta sempre più preziosa (o per usare le parole del rapporto Collin-Colin, “la materia prima” dell’economia digitale).

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