A giudicare dalle sommosse che si sono registrate in queste ore in molti punti del web, Google deve aver mollato un solenne calcio a un nido di vespe. Ma cosa ha fatto? Ha allentato ancora di più i cordoni sulla privacy dei vostri dati? No. Ha trovato un nuovo modo di allungarvi annunci pubblicitari mirati? Acqua. Ha ceduto alle pressioni di un governo dispotico censurando attivisti politici? Macché. Ha semplicemente toccato la cosa che gli internauti hanno più a cuore fin dall’alba del World Wide Web: il porno in rete.
Da qualche giorno, le ricerche compiute sulla versione statunitense del motore di ricerca devono superare un filtro molto più severo in materia di contenuti a luci rosse. Il nuovo, inaspettato, aggiornamento di SafeSearch fa sì che cercando ad esempio la parola “breasts” su Google Immagini si assista a una carrellata di immagini di reggiseni e illustrazioni anatomiche, del tutto scevra da contenuti che potrebbero essere considerati di natura erotica o pornografica.
Risulta fin troppo facile, in occasioni come questa, tacciare Google di moralismo (o di eccessivo perbenismo). Insomma, dopotutto Google per la maggior parte delle persone è la porta di ingresso principale per il Web e, sebbene negli ultimi anni abbia dimostrato di essere tuttaltro che un paladino dell’imparzialità delle ricerche, ci si aspetta che da quella barra di ricerca sia possibile raggiungere qualsiasi punto della Rete la cui fruizione non sia perseguibile per legge. Soprattutto quando l’argomento in questione è da anni uno dei più grandi fomentatori di traffico web.
Per avere un’idea più definita del fenomeno, qualche numero. Attualmente l’industria del porno online genera un traffico mondiale annuo di 5 miliardi di dollari. Si stima che il 15-20% delle pagine web appartengano a siti di pornografia, questo significa che se aveste uno strumento per pescare pagine a casaccio dalla rete (quelli esistenti spesso filtrano automaticamente le pagine hard), una volta su otto capiterete su un portale che smercia abbondanti centimetri di pelle e lingerie. Non è finita: pare che il 70% degli uomini con un’età compresa tra i 18 e i 24 anni, visitino abitualmente (seppur non quotidianamente) siti porno. Il 20% dei maschi che lavorano in un ufficio dichiara inoltre di visitare siti a sfondo sessuale durante le ore lavorative (fra le donne la percentuale non scende sotto il 13%). Restringendo la discussione alle ricerche web, la tendenza appare persino più marcata, basti pensare che il 25% di tutte le ricerche web hanno portano a siti erotici (parlando di download, la percentuale sale fino al 35%).
Alla luce di queste cifre, non stupisce apprendere che la mossa di Google ha fatto letteralmente infuriare una buona parte del Web. I primi focolai di polemica sono apparsi sul portale Reddit , dove gli utenti si sono principalmente lamentati del fatto che l’azienda di Mountain View abbia cominciato a filtrare i risultati senza nemmeno comunicare la novità esplicitamente. Di fronte alle polemiche, Google ha dichiarato che le barriere introdotte per rendere meno accessibili i contenuti a sfondo erotico, sono volte unicamente a fornire agli utenti quello che davvero stanno cercando. In poche parole: non vogliamo che se uno cerca “banana”sul motore di ricerca si debba ritrovare bersagliato da immagini potenzialmente offensive, se proprio ci tiene, sia più esplicito.
Perciò, se vi capitasse di cercare del porno su Google, vi toccherà spiegare al motore di ricerca che quello che vi interessa vedere sono tette e culi. Il modo più facile per farlo, come spiega Fredric Paul su ReadWriteWeb è aggiungere “XXX” a ogni query. L’alternativa è utilizzare un altro motore di ricerca, come Bing o, per andare sul sicuro, Search.xxx .
Prima di chiudere il capitolo, c’è un altro problema da considerare. Si tratta di quella porzione di siti a sfondo erotico che propone materiale illegale e che, spesso, rischia di finire sotto il cursore di bambini e ragazzini minorenni. Le ricerche rivelano infatti che tendenzialmente un individuo comincia in media a visitare pagine pornografiche all’età di 11 anni e il 34% degli utenti riceve materiale pornografico indesiderato, sotto forma di email, pubblicità o contatto diretto. Parallelamente, esiste una nutrita fetta di utenti che cerca, propone e fruisce pornografia illegale infantile, e si calcola che 100.000 ricerche ogni giorno hanno come oggetto materiale di pedofilia.
In ques’ottica, un filtro a maglie più strette potrebbe aiutare ad arginare il fenomeno. Anche se purtroppo, e questo bisogna tenerlo presente, non basterà a risolverlo.