Centinaia le caselle del servizio di posta elettronica di Google violate ma ben definiti risulterebbero gli obiettivi presi di mira e cioè alcuni responsabili del Governo Usa, attivisti politici cinesi, alti responsabili di alcuni paesi asiatici come la Corea del Sud, personale militare e giornalisti. Uno schema di phishing ben congegnato, finalizzato all’appropriazione delle password delle caselle e alla conseguente modifica delle impostazioni per l’inoltro delle e-mail così da controllare le attività di comunicazione privata. Il sistema era semplice, dopo l’invio di una e-mail con un falso allegato simulato da un link di download, l’utente, attraverso un clic, dava facile accesso ai propri dati personali. Google ha notificato l’accaduto alle autorità a stelle e strisce e alle vittime civili dell’attacco informatico proveniente da Jinan, dalla provincia di Shandong nella Cina orientale, puntando il dito, dunque, contro la stessa Nazione ed affrettandosi a ribire che la violazione non sarebbe imputabile ad una vulnerabilità dei propri sistemi di sicurezza. Già nel 2010 il colosso di Mountain View aveva accusato gli hacker cinesi di aver aggredito i propri server in Oriente, aggressione, che interessò una trentina di società con particolare riguardo al trafugamento di dati dai conti di alcuni attivisti impegnati nella difesa dei diritti umani. La Cina, come allora, nega di essere in minima parte responsabile del cyber attacco definendo come “inaccettabili” le accuse rivoltegli da Google: “Queste accuse di hacking sono completamente infondate e fatte per altri motivi”, ha dichiarato Hong Lei, portavoce del ministero degli Esteri di Pechino. “Gli attacchi degli hackers sono un problema internazionale e anche la Cina ne è vittima”, ha aggiunto Hong, ribadendo che “la Cina si batte contro i reati su Internet e li reprime in maniera risoluta”. Eppure