La Cina torna sotto l’occhio del ciclone della pista hacker.
Sarebbe stata identificata a Shangai, la sede di coordinamento degli attacchi informatici, l’accusa proviene dagli Stati Uniti ma le autorità di Pechino si affrettano a smentire ogni accusa.
A condurre le indagini che hanno portato alla cellula cinese, è la società Mandiant di Washington, organo deputato dal governo ai controlli sulla sicurezza informatica.
In particolare modo è stato identificato un gruppo responsabile delle attività di spionaggio informatico nei confronti delle attività energetiche americane, che risponde al nome di Apt1 (Advanced Persistent Threat).
La difesa di Pechino poggia sulle caratteristiche di anonimato e camaleontismo che fanno dell’identità degli hacker qualcosa di molto difficile da delineare.
C’è comunque da dire che tra i due paesi ci sono diverse ferite ancora aperte che alimentano i pretesti per lo scontro.
Era il 26 Ottobre del 2012 quando la censura cinese colpiva il New York Times, reo di avere pubblicato sulle sue pagine tutti i dettagli dell’inchiesta sul premier cinese Wn Jiabao.
Il tabloid britannico metteva in luce le ombre dell’ascesa economica del premier che collidevano con l’immagine modesta e retta che questi mirava a dare di sé.
Da allora gli equilibri diplomatici tra i due paesi si sono fortemente incrinati e dunque le accuse mosse dagli Usa alla Cina sul fronte della pirateria cibernetica, sono solo l’ultimo tassello di un puzzle composto da molti ed intrigati incastri.
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