Lasciare una poltrona per un’altra. Che tanto non si perde nulla, anzi si guadagna, e nel frattempo si prova l’ebbrezza della discesa (o salita) in politica. Corradino Mineo, direttore di Rainews dal novembre 2006, l’intera carriera spesa nella tivù pubblica, è uno dei tanti che abbandonerà la professione per un posto in parlamento. Il 63enne giornalista sarà infatti capolista del Partito democratico in Sicilia per il Senato, mentre ai suoi colleghi – e a tutti gli italiani – toccherà, oltre che pagare stipendio e benefit in caso di elezione, anche contribuire alla sua presumibilmente lauta pensione da giornalista.
E Mineo non è certo l’unico professionista dell’informazione a tentare la nuova avventura nei palazzi della res publica: con lui ci sono il vicedirettore del Corriere della Sera Massimo Mucchetti, il direttore de Il Tempo Mario Sechi. Per non parlare di tutti i nomi noti che l’hanno fatto prima, da Michele Santoro a Lilli Gruber, passando per Sassoli, Polito e Ferrara. Più tutti quelli più conosciuti come politici che come giornalisti, ma che godono degli stessi benefici dei loro colleghi di penna, vedi Mastella o Gasparri. Anche se in una redazione non mettono piede da secoli.
E non fa niente se nel frattempo si matura il vitalizio parlamentare, la legge parla chiaro. Per la verità, fino al 1999 era ancora più generosa: fino a quella data tutti i giornalisti in aspettativa parlamentare maturavano i contributi figurativi senza versare un euro. Con la legge 488 di quell’anno è stata, però, introdotta una novità: a seguito dell’elezione in una delle Camere, così come in assemblee regionali, il giornalista è tenuto a versare all’Inpgi – l’istituto previdenziale dei giornalisti – l’equivalente dei contributi pensionistici nella misura prevista per la quota a carico del lavoratore, che attualmente è pari al 8,69% . Il resto, cioè la parte a carico dell’editore, la mette lo stesso Inpgi, cioè tutti i giornalisti. Anche quelli che racimolano stipendi ben inferiori a quello del direttore di Rainews o al vicedirettore del Corriere.
Poco importa se c’è la crisi, se il settore dell’editoria è uno di quelli che maggiormente soffre l’assenza di occupazione, se le vertenze aziendali di giornali e tivù sono la quotidianità e l’Inpgi si trova sempre più ad affrontare – sostenendo economicamente – disoccupazioni e contratti di solidarietà. Ai giornalisti in aspettativa spetta comunque la propria fetta di contributi per un periodo massimo di cinque anni. Pagano i colleghi.
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