Quando è ancora fresco il ricordo di Simone Camilli, il mondo piange un altro giornalista vittima dei conflitti in Medio Oriente. James Foley, freelance americano, è stato ucciso atrocemente da un tagliagole dello Stato islamico in Iraq e nel Levante. Il giornalista era stato rapito in Siria nel novembre 2012. L’Isis, che ha fondato il suo califfato su sangue e barbarie, non tollera le ingerenze americane. Il messaggio al presidente Barack Obama non avrebbe potuto essere più chiaro. Stop ai raid, o ci saranno altre vittime innocenti. L’attendibilità del filmato diffuso dall’Isis non è verificata al 100%, ma purtroppo sembrano esserci pochi dubbi. Nel video si osserva Foley in tuta arancione, mentre un terrorista avvicina il coltello alla sua gola e minaccia il popolo americano. Nell’immagine successiva si vede il corpo del giornalista nel sangue con la testa mozzata sulla schiena. L’Isis ha un altro giornalista prigioniero, Steven Sotloff. Foley era già un miracolato della guerra, essendo stato rapito in Libia nel conflitto di tre anni fa. Era stato liberato dopo 44 giorni. Questa volta non è andata altrettanto bene. L’oscurantismo e il terrore hanno trionfato sulla libertà di informazione propugnata dallo stoico reporter. L’America fa bene ad inneggiare alla memoria del suo eroe, ma si faccia anche due domande. Si chieda cosa ha permesso a questo male di espandersi senza controllo. Forse quella stessa politica dei bombardamenti, che oggi sembra inevitabile, ma undici anni fa non lo era.