L’Italia, vista da Bruxelles, è un Paese sotto giudizio, dove lo switch-over va a rilento e dove la discussione su come gestire il digital divide è ancora remota. Eppure il passaggio al digitale sta a cuore al nuovo governo. Paolo Romani, sottosegretario allo Sviluppo economico con delega alle Comunicazioni, ha più volte ripetuto di voler anticipare la data finale dello switch-off (fissata dal precedente governo al 12 dicembre 2012) e, per settembre, il calendario con date e modalità dello switch-over. Affiancato dal “padre” del progetto italiano per il Dtt, il senatore Pdl Maurizio Gasparri, che chiede di mettere al centro della migrazione digitale il tema incentivi per i decoder “perché sono molti gli italiani che potrebbero trovarsi nell’impossibilità di vedere la nuova tv”.
In effetti, il passaggio al digitale e la liberazione di frequenze è stato un vero e proprio affare per altri Paesi. Negli Usa sono 19 i miliardi di dollari incassati dallo Stato dall’asta delle frequenze lasciate libere dallo switch-off. In Gran Bretagna si calcola un introito fra i 5 e i 10 milioni di sterline dall’asta di frequenze che Ofcom ha deciso di far partire entro agosto 2009. Intanto la Gsma, associazione di 700 operatori mobili, chiede all’Europa di riservare il 25% dello spettro liberato per i servizi mobili e per armonizzare le nuove frequenze sull’insieme dei Paesi del Vecchio continente.
Ma qui siamo in Italia. E le buone intenzioni annunciate dai politici (sempre che non siamo solo propaganda) sollevano alcuni interrogativi. Quanto costa all’Italia un anticipo dello switch off? Da dove arriveranno gli incentivi allo studio del governo per operatori tv e utenti televisivi? Siamo ancora in attesa di sapere se sarà sufficiente il gioco d’anticipo italiano, con il decreto sugli adempimenti comunitari, per frenare la Corte di giustizia europea, che, già da ora, trova che il “regime italiano per la gestione dello switch-over favorisce la TV di operatori storici, garantendo loro, su base esclusiva e per un periodo indeterminato, una posizione privilegiata senza obbligo di restituire l’eccesso di frequenze analogiche. E ancora: passerà liscia sotto la lente della Ue il “modello Sardegna” (switch-off previsto per fine anno) per la redistribuzione delle frequenze in base a un accordo tra operatori? O sarà necessaria un’asta per riallocare le frequenze “bianche”? Bisognerà vedere se il commissario, Viviane Reding, troverà sufficientemente “trasparente” il modello Sardegna basato su accordi, in un momento come questo in cui ricorda agli operatori mobili di voler andare loro incontro con metà delle frequenze che si libereranno dallo switch off.
A tal proposito, Antonio Sassano (Fondazione Bordoni), nel suo intervento ad un
convegno organizzato dall’Isimm (“Organizzare il mercato: il digitale terrestre nel Sistema Italia”) afferma che il nodo centrale “rimane quello delle frequenze: se rimarremo così saremo massacrati dalle interferenze”. Ricordando le favolose aste americane, l’ingegnere mette a fuoco come una razionale gestione dello spettro potrebbe produrre in Italia non uno, ma due digital divide. La “gestione attenta” potrebbe partire dall’esperienza Sardegna: che ha sì avuto il merito di recuperare frequenze, ma di fatto è già stata immessa nel decreto sugli adempimenti comunitari”. Ma per poter essere replicabile al resto d’Italia, un modello basato sulla co-gestione, dovrebbe risponde a criteri di trasparenza e, alla base, ci dovrebbero essere i requisiti di neutralità ed efficienza dello spettro richiesti dalla Commissione europea.
Fabiana Cammarano
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