C’era una volta Le Monde, il grande quotidiano francese spostato a sinistra, ma orgoglioso della propria indipendenza. Nell’era delle grandi fusioni era uno dei pochi ancora controllato dai giornalisti e dai lettori. Le Monde esiste ancora, ma ha perso lo smalto di un tempo. È un giornale smilzo e meno influente. Non luccica, non graffia, non fa tendenza. Nell’era delle griffe, il suo marchio ha ancora un certo valore, ma ipotetico, mentre il giornale ha bisogno di soldi. Tanti soldi. Le casse sono vuote e il futuro del quotidiano fondato nel 1944 da Hubert Beuve-Méry appare nero e tempestoso.
Diciamola tutta: per la prima volta in 66 anni Le Monde sta considerando seriamente di depositare i bilanci, ovvero di chiudere. Colpa della crisi economica? Senza dubbio, ma soprattutto dell’avvento dell’informazione online e della fine del modello economico su cui si è retto il mondo dell’editoria nell’ultimo secolo. Diminuiscono le vendite in edicola, aumentano i visitatori sul sito, ma la pubblicità che lascia la carta non si trasferisce sui portali dei quotidiani, bensì prende altre vie, aprendo voragini nei conti di quei quotidiani che negli ultimi anni non sono riusciti a contenere i costi fissi o non hanno programmato adeguate strategie editoriali per gestire la transizione.
Problema drammatico, che in realtà tocca la maggior parte dei quotidiani occidentali, compreso il New York Times, che un anno fa fu salvato dai 250 milioni di dollari investiti dal miliardario messicano Carlos Slim, consacrato poche settimane fa l’uomo più ricco del mondo. Anche Le Monde, l’anno scorso, ha ricevuto una bella iniezione di fondi, 25 milioni di euro, dal gruppo bancario Bnp-Paribas, che però non è entrato nel capitale, ma ha preferito ricorrere alla formula del prestito, ottenendo, in cambio, un’opzione sul settimanale Télérama – l’allegato dedicato a Le Monde, equivalente al nostro Sorrisi e Canzoni Tv – da esercitare in caso di mancato rimborso.
Il problema è che i 25 milioni sono finiti in fretta e il gruppo editoriale nell’aprile 2010 è già in forte debito di ossigeno. Deve assolutamente trovare nuovi finanziatori, che però sono disposti a impegnarsi solo in cambio del controllo della società. Dunque o i giornalisti e la società dei Lecteurs du Monde rinunciano alle proprie quote e all’indipendenza del quotidiano, o già a luglio rischiano la chiusura.
E qui il quadro si complica. Negli Usa nessuno ha sollevato obiezioni quando Slim, peraltro ben introdotto nell’establishment statunitense, ha annunciato il megainvestimento nella testata della Grande Mela. Ma in Francia è un’altra storia, forse perché il capitale negli ultimi anni è già stato aperto ad altri investitori. Anche italiani (il Gruppo l’Espresso ne possiede il 3 per cento) e spagnoli, tramite il gruppo Prisa (editore di El País), la cui quota tocca il 15 per cento. E francesi, naturalmente, con il colosso Lagardère al 17 per cento. Quote di minoranza, ma politicamente molto pesanti. Lagardère è da sempre molto vicino a Sarkozy, mentre l’alleanza con L’espresso e il País, sebbene appaia più naturale (i tre gruppi collaborano da tempo a livello editoriale), nasconde un’insidia. Il gruppo Prisa è nominalmente spagnolo, ma in realtà è stato a sua volta rilevato da un fondo pensione americano.
Ma la crisi di liquidità è tale che Le Monde non può tergiversare. Ieri si è riunito il Consiglio di Amministrazione per esplorare le tre possibili soluzioni: maggioranza a Lagardère o agli alleati spagnolo e italiano, che salirebbero rispettivamente al 34 e al 17 per cento, o apparizione di nuovi investitori. L’Espresso ha smentito di voler aumentare la propria quota, ma potrebbe trattarsi di un annuncio tattico. D’altronde a Parigi molti si chiedono se sia giusto che un amico di Sarkozy metta le mani sul principale quotidiano di sinistra e d’altra parte se sia accettabile che a esercitare il controllo sia una società Usa. Che credibilità avrebbe un Le Monde americano?
A meno che non si ricorra allo spezzatino: cedere alcune testate del gruppo per difendere il giornale e aspettare tempi migliori. Un epilogo
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