Fondo Straordinario per l’editoria, Bagnardi (File): Ricostruiamo gli obiettivi e investiamo in cultura

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Editoria digitale

I principali attori dell’editoria italiana, incontreranno, presumibilmente nel giro di poco tempo, il Governo per ridiscutere le strategie di ripartizione del Fondo Straordinario. I lettori di editoria.tv conoscono bene la vicenda. Si tratta di un piatto da 120 milioni per i prossimi tre anni che dovrebbero dare un po’ d’ossigeno ad un settore schiantato dalla crisi. E stretto a morsa tra un passato costoso e insostenibile e un futuro ancora nebbioso. Ma cosa chiederanno gli editori al sottosegretario alla presidenza del Consiglio Luca Lotti, incaricato di guidare questa mediazione? Quali saranno le decisioni finali? Cominciamo un percorso di interviste ai rappresentati delle diverse forze in campo per capire quali siano gli indirizzi che il Governo riceverà. E partiamo da Caterina Bagnardi, presidente della File, l’associazione dei liberi editori, approfittando dell’occasione anche per alzare il tiro e fare un’analisi sul momento attuale.

Come legge, lei, la situazione attuale del settore editoria? Come la inquadra?
C’è un quadro generale da tracciare, prima di entrare nel merito. La gravissima crisi che ha caratterizzato l’intera economia dei Paesi occidentali è stata la concausa di una situazione di storica difficoltà delle imprese editoriali. Infatti, il discontinuo impegno rispetto al settore dello Stato italiano, in controtendenza rispetto alle politiche degli altri Paesi dell’Unione o degli stessi Stati Uniti, l’avvento di nuove modalità di fruizione dei contenuti, l’utilizzo delle risorse pubbliche, purtroppo legate alle famose indagini, da parte di alcuni editori, hanno creato una somma algebrica di elementi di squilibrio di proporzioni storiche.
Per questo sono stati ridotti i contributi diretti.
L’intensità dell’intervento pubblico è passato da circa 700 milioni di euro nel 2004 a poco più di 50 milioni di euro nel 2014. Un taglio che avrebbe potuto avere, forse, una logica nell’ambito di una complessiva ristrutturazione del settore che andava ripensato e, forse, reinventato.
Sì, ma sono diversi gli interventi che lo Stato ha fatto in questo senso. La spending review è diventata parola d’ordine anche per altri settori.
Ma nessun settore ha subito un taglio simile. E, nonostante questo, nessun settore è stato così aspramente criticato da una certa parte di opinione pubblica come quello dell’editoria.
Cos’hanno prodotto questi tagli?
Decine di quotidiani, centinaia di periodici hanno chiuso, trasferendo sullo stesso Stato buona parte dell’onere della crisi. Un costo invisibile per la democrazia si è trasformato in un risparmio invisibile per lo Stato.
In che senso?
La grandissima parte delle aziende ancora in piedi hanno fatto un massiccio ricorso agli ammortizzatori sociali, riducendo, è vero, il costo del lavoro, ma rinunciando a qualsiasi percorso di crescita e di ristrutturazione che guarda con fiducia al domani e non ad un drammatico presente.
E come mai gli editori non hanno deciso di virare con più forza verso percorsi di innovazione?
L’innovazione non è più una scelta, è una necessità. E non può essere fine a se stessa perché non produce nulla se non è inserita in un percorso che ha come obiettivo principale la crescita occupazionale. In questi anni del settore si è detto tutto e il contrario di tutto.
La File chi rappresenta?
Noi rappresentiamo decine di imprese editrici, ma vantiamo una particolare rappresentatività nei quotidiani locali, quelli fatti per la gente, cronache locali, i nostri associati raccontano i fatti alla gente del luogo.
E cosa vi aspettate dal Governo?
Dal sottosegretario Lotti e da questo Governo attendiamo riforme; riforme vere, riforme che nascano dalla conoscenza delle realtà su cui si interviene, sulla base di una realistica previsione degli effetti che questi cambiamenti avranno. Vogliamo che la propaganda lasci il passo al pragmatismo.
E qual è la via giusta? Da dove bisogna partire?
Si deve partire da una sintesi del quadro complessivo di ciò che avviene negli altri Paesi. Basta leggere tre documenti: uno è frutto di una ricerca italiana, una è la traduzione integrale degli Stati Generali dell’editoria in Francia e l’altro è la traduzione di una ricerca condotta da due ricercatori dell’università di Oxford. Ma le buone notizie arrivano solo per gli editori d’Oltralpe. Dopo la riduzione dell’iva per la stampa online, il Governo francese, nel corso dell’ultima finanziaria, ha approvato la proroga del fondo per gli investimenti per la stampa fino a tutto il 2014.
E in Italia?
Queste ricerche dimostrano, senza ombra di dubbio che la circostanza che l’Italia sia l’unico Paese in cui lo Stato sostenga un certo tipo d’informazione, non è vero. Secondo noi, si dovrebbe avviare un rapporto di interlocuzione con il Parlamento, con le commissioni parlamentari competenti e con i capi gruppo sulla base di documenti di analisi. Noi della File, per esempio, abbiamo sempre proposto cose realistiche ed attuabili, spesso recepite, se lette.
Ma torniamo a un tema centrale. Cosa si sceglie tra la salvaguardia del vecchio e l’investimento sul futuro, sull’innovazione?
Sono ormai anni che sentiamo parlare di innovazione come ricetta magica. Ma nessuno ci spiega cos’è questa innovazione. Se è il passaggio al digitale, allora l’innovazione c’è già stata. Ma il problema vero sa qual è?
Quale?
E’ la perdita di vista degli obiettivi. L’innovazione non è da sostenere come misura di politica industriale, ma è, semplicemente, necessaria. E l’obiettivo non può essere l’innovazione, ma lo sviluppo della filiera industriale, rispetto alla quale la parola ‘magica’, l’innovazione, non può che essere uno strumento. Perché il problema non è la tecnologia utilizzata, ma le abitudini di consumo dei lettori ed il sistema di promozione dei prodotti e dei servizi degli inserzionisti. Bisogna innovare per trovare un percorso di crescita e di sviluppo di un settore cruciale per la democrazia. E non innovare per innovare.
Intanto, i giovani, che di questi processi dovrebbero essere attori protagonisti, continuano a stare a spasso. Perché?
Le ragioni di base sono le stesse. Se si vuole andare oltre i facili slogan della demagogia occorre vedere i fatti. E i fatti sono che le imprese che non hanno chiuso, hanno fatto ricorso agli ammortizzatori sociali. E per anni queste imprese non potranno fare nuove assunzioni. Si è creato un imbuto di cui non si parla, perché le parole sono semplici da usare se non si calano nella realtà dei fatti. Le riconversioni, le ristrutturazioni sono programmi che guardano al futuro con il timore che il futuro non ci sia, distruggendo il presente di chi nelle imprese lavora o di chi in queste imprese vuole lavorare.
E può, questo Fondo, possono questi soldi che lo Stato vuole reimmettere nel circuito, servire a qualcosa?
Questa è una grande opportunità. E non solo per le risorse stanziate a favore di un settore, la cui crisi è sotto gli occhi di tutti, ma per l’approccio della norma, che prevede un tipo di sostegno diverso da quelli sinora utilizzati. E il tema non è quello dell’innovazione o dell’occupazione giovanile, ma la previsione che questo tipo di intervento rientri nel regime del de minimis, privilegiando, concretamente, le iniziative di minori dimensioni, o nell’ambito delle imprese di dimensioni medio grandi, interventi specifici, comunque con un limite massimo di 200.000 euro per gruppo nell’arco di un triennio. A fronte di tutto questo, il vero dato è che oggi, male, molto male, sopravvivono ancora decine di incredibili realtà editoriali che aspettano un segnale serio da parte dello Stato prima di decidere se deporre le armi e lasciare che rimangano sul campo poche ed ‘esclusive’ realtà; chiudendo definitivamente con il sogno del legislatore coraggioso del 1981 che pensava al modello dell’editore puro, gestito attraverso la formula del non profit e dell’editoria cooperativistica.
Ma cos’è che manca davvero, allora, oggi?
Start up, innovation technology, media competition, ecc.: da anni si sentono ripetere le stesse parole. Ma la verità è una: siamo orfani di un termine che è scomparso. Che è ‘cultura’. La rete, come scritto nei giorni scorsi, è la fine del principio di autorevolezza intellettuale, dove qualsiasi blogger o twittatore è più autorevole di qualsiasi intellettuale o scrittore e o editorialista professionista, e non deve rispondere di niente. La maggior parte delle persone preferiscono informarsi leggendo un blog, convinti che non pagare qualcosa sia un bene, anzi ritenendo che un blogger sia più credibile di un qualsiasi professionista dell’informazione, corrotto con il sistema.
Ma questi processi non sono arginabili…
Sì, ma fa ridere parlare dell’informazione senza disporre delle informazioni. Anzi, l’Italia è stata mortificata dall’incapacità di pensare alla cultura come leva per il progresso. Basterebbe informarsi per sapere che dell’Italia, della sua cultura e della sua lingua c’è, secondo le ferree leggi dell’economia, domanda. E l’offerta va strutturata non solo sulla base del passato, ma anche di un presente, mortificato alle esigenze delle contabilità. E’, forse, proprio dalla cultura che devono partire i giovani.

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