Meno cinque. Il primo luglio chiunque vorrà vendere un pc in Cina dovrà prevedere l’istallazione del programma Green Dam (diga verde), che le autorità hanno concepito per evitare l’accesso ai siti pornografici.
I netizen della Repubblica Popolare l’hanno attaccato vedendovi l’ennesimo strumento di controllo e limitazione della libertà individuale. Gli osservatori occidentali hanno espresso le loro perplessità, sottolineando come la bonifica della Rete da contenuti osceni sia spesso utilizzata dalle autorità per fare piazza pulita anche di siti e blog di critica al governo. L’ondata di rilievi all’interno della Cina, poi, ha toccato gli stessi vertici, che si sono affrettati a spiegare: è obbligatoria l’installazione, non l’attivazione, che dunque sarebbe facoltativa.
Non è finita, perché – a valanga – la questione ha continuato ad allargarsi. Dagli Stati Uniti una società californiana ha sostenuto che il software di Green Dam utilizza algoritmi e intuizioni non originali, e dunque merita un’azione legale. Analisi più tecniche sia all’estero che in Cina, poi, hanno spiegato che la struttura del filtro anti-porno è obsoleta e tale da minacciare il corretto funzionamento dei pc di ultima generazione che lo utilizzano, esponendoli a virus e incursioni di hacker. Come se non bastasse, sono passati all’attacco anche gli Usa, su due fronti: da una parte hanno criticato l’uso di meccanismi che possano bloccare contenuti sgraditi al governo, dall’altra hanno accusato Pechino di violare – con l’istallazione forzata del software – le norme del Wto a tutela del libero mercato. Di tutto, insomma. Il tocco finale viene da Ai Weiwei, il geniale, multiforme artista e performer (sua l’idea dello stadio Nido d’Uccello, poi ripudiato) che ha invitato gli utenti di Internet a boicottare l’entrata in servizio di Green Dam facendo uno sciopero del web il 1° luglio.
Il caso Green Dam si combina poi con i blocchi a intermittenza di Google o di alcune sue funzioni, sia nella versione in inglese sia in quella in lingua mandarina. E arriva in concomitanza con le nuove purghe che hanno interessato non già i siti porno ma anche quelli di igiene e medicina, non necessariamente di sessuologia (da segnalare che il ministero della Sanità in Cina è assegnato a un politico non comunista, un indipendente senza affiliazione di partito). Alcuni siti, vedi YouTube, continuano a rimanere bloccati da mesi e si possono raggiungere solo attraverso proxy. Agli osservatori più intransigenti non è sfuggita la coincidenza fra la stretta su web e la convalida dell’arresto, dopo 6 mesi e mezzo di custodia preventiva, del dissidente Liu Xiaobo, uno degli autori del documento pro-democratico Charta 08 (del dicembre scorso). I media di Stato hanno comunicato la notizia di Liu con inusuale evidenza, e pare probabile l’intento di farne un caso esemplare e un ammonimento per gli altri irriducibili del dissenso.
Ma se la vicenda umana e politica di Liu (sostenuto nel mondo da intellettuali e premi Nobel) resta estranea alla stragrande maggioranza dei cinesi, il feroce dibattito scatenato dall’affaire Green Dam lascia intuire che – nonostante tutto, nonostante la censura e i ceppi che frenano la Rete – un’opinione pubblica capace di indignarsi, reagire, dibattere, di sviluppare punti di vista molteplici e non necessariamente indulgenti verso il governo, ebbene, un’opinione pubblica così in Cina c’è già. (Repubblica)
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