Gli editori indipendenti portano la loro esperienza nella discussione sul disegno di legge per la riforma dell’editoria e per l’istituzione del fondo per il pluralismo e l’innovazione tecnologica nel settore dell’editoria. “Il testo arrivato al Senato è frutto di un importante dibattito, che si è svolto presso la commissione Cultura della Camera”, sottolinea la presidente della File (Federazione Italiana Liberi Editori), Caterina Bagnardi. Dibattito a cui hanno partecipato vari esponenti: tecnici, giuristi, economisti, sindacalisti, giornalisti, editori e, in generale, operatori dell’informazione. “Ma occorre dire che il testo approvato dalla Camera è, nella sostanza, lo stesso presentato dai firmatari del disegno di legge”.
Dopo la prima parte della discussione sul ddl, quella alla Camera, sembra che le forze politiche concordino sulla necessità di sostenere un’informazione autonoma ed indipendente. Ma basterà per trovare il giusto equilibrio tra mercato e garanzia pubblica di pluralismo?
Il testo attualmente in discussione è una riforma, per quanto parziale, necessaria in un momento così particolare per l’intero sistema dell’informazione. Noi chiediamo solo di soffermare l’attenzione su pochi punti che sono essenziali per la sopravvivenza delle imprese che proprio il testo intende tutelare nei principi generali; ma che, invece, per alcuni profili sembra nascere da un’incompleta conoscenza del settore di riferimento.
In questo contesto il contributo pubblico ha la sua importanza…
Il sostegno al pluralismo non è solo sancito espressamente dall’articolo 21 della nostra Costituzione, ma anche dall’articolo 11 della carta dei diritti fondamentali dell’uomo che prevede che gli Stati debbano garantire il pluralismo. La giurisprudenza comunitaria con grande costanza ha evidenziato come questa garanzia non vada concessa unicamente con misure regolamentari, ma con politiche attive di sostegno. E questa circostanza trova conferma in una ricerca condotta dall’università di Oxford, “L’aiuto dello Stato ai media”, in cui è stata misurata in euro l’intensità pro-capite del contributo pubblico al pluralismo; contributo che variava, da un massimo di 1.307 euro in Finlandia ad un minimo di 43,1 euro dell’Italia. Da allora i contributi italiani all’informazione si sono ulteriormente ridotti, confermando il nostro Paese come fanalino di coda nel sostegno al pluralismo in Europa.
Chi voleva l’abolizione del fondo per l’editoria lamentava possibili ingerenze da parte del potere politico. Adesso bisogna garantire l’indipendenza dei piccoli editori dall’esecutivo.
Anzitutto se si decide di finanziare alcuni tipi di imprese editoriali, è giusto dettare regole rigide in un quadro di certezza del diritto. Ma la certezza del diritto prevede la necessità di conoscere subito le regole del gioco, non essendo ipotizzabile – e tra l’altro con rilievi di costituzionalità recentemente posti da alcuni giudici – il mantenimento dell’attuale sistema in cui il diritto delle imprese che producono informazione è subordinato, nella quantificazione, alle decisioni finanziarie del governo. E, quel che è più grave, un qualsiasi governo può di anno in anno decidere di abolire di fatto il contributo semplicemente svuotando il fondo per l’editoria. È chiaro che un simile modello non è sostenibile economicamente per nessuna azienda e non è nemmeno garanzia di pluralismo e indipendenza dell’informazione.
La questione delle deleghe al governo contenute nel testo è una di quelle che hanno fatto discutere di più finora, una questione molto delicata…
Indispensabile per garantire quei diritti, che sono la finalità e la ragion d’essere dei progetti di legge in discussione, è garantire il diritto soggettivo ai finanziamenti, una volta dimostrata la regolarità della propria posizione ed il rispetto di tutte le norme di legge. Vale a dire che, se la legge prevede puntualmente le modalità di determinazione del contributo, l’impresa ha diritto a percepire quelle somme; si tratta di un problema di certezza del diritto.
Proprio per garantire ancora di più questo diritto, esistono delle alternative nel caso in cui ci fossero “problemi di cassa” da parte dello Stato?
Sarebbe ipotizzabile compensare la parte che non si riesce a liquidare concedendo alle aziende un credito d’imposta corrispettivo, con cui pagare tasse o contributi dell’anno successivo.
O ancora prevedere che lo stanziamento a favore delle imprese che vengono ritenute qualificate sotto il profilo soggettivo ed oggettivo abbiano una garanzia fissata dal legislatore stesso sulla percentuale dello stanziamento a loro destinato, in modo che venga garantita l’autonomia delle stesse dai governi.
Come si potrebbe superare lo scoglio delle deleghe al governo nel ddl di riforma dell’editoria?
In realtà una serie di deleghe potrebbero essere trasformate da subito in norme di dettaglio, in modo tale che da un lato si possa garantire l’immediata applicazione della nuova normativa e dall’altro, anche sotto il profilo istituzionale, sottrarre del tutto il potere legislativo al governo su un tema delicato come quello del pluralismo.
Un altro tema di questa riforma è quello del contributo di solidarietà a carico delle concessionarie di pubblicità e di tutte le imprese editoriali che potrebbero contribuire ad alimentare il fondo.
L’impressione è che questo contributo nasca da un’esigenza avvertita da parte di alcuni di tassare i redditi prodotti dai motori di ricerca e dai social network che utilizzano spesso contenuti di altri; al tempo stesso, però, sembra anche non tener conto della di crisi dell’intero settore, degli effetti in termini di effettiva capacità di apportare risorse al fondo e di un problema di base, ossia individuare quali tipo di imprese debbano essere chiamate a sostenere il pluralismo nel nome di un interesse collettivo.
Uno dei grandi problemi della piccola editoria è proprio che la grande pubblicità è per loro una sorta di “tabù”…
Uscire da questo dilemma e risolvere allo stesso tempo il problema del finanziamento del Fondo per l’editoria è, secondo noi, possibile.
Basterebbe introdurre per le grandi aziende (quelle, per esempio, con fatturato superiore ai cento milioni di euro), che hanno grandi interessi da tutelare (pensiamo alle banche, alle assicurazioni, ai grandi gruppi del settore alimentare o industriale), un contributo al pluralismo in misura infinitesima rispetto al valore della produzione (per esempio lo 0,05%). Parliamo di valori irrisori rispetto ai bilanci di queste imprese (nel nostro esempio si tratterebbe di 50mila euro ogni cento milioni di fatturato) da destinare al sostegno del pluralismo. Ecco che il fondo per l’editoria sarebbe finanziato a costo zero per lo Stato.
Carta e digitale: sembra che un argomento fondante del discorso sia quello di individuare come obiettivo del sostegno chi è in grado di fare innovazione, forse confondendo due profili diversi dell’informazione. Qual è l’impressione della File?
Abbiamo l’impressione che il tema dell’innovazione venga spesso trattato sulla scorta di una sorta di dicotomia tra un modello vincente, il digitale, ed uno perdente, il cartaceo.
Riteniamo che non sia così. I giornali cartacei possono avere ancora una funzione, a condizione che rispondano in maniera seria ed innovativa, alla domanda d’informazione; così come i giornali web possono avere contenuti anche di altissimo livello, a condizione che rientrino nell’ambito di un serio progetto editoriale e che non abbiano come obiettivo i click. Il problema, quindi, è cosa deve essere oggetto di tutela, se lo strumento, e quindi il passaggio al digitale come premessa per l’innovazione, o il contenuto? A nostro avviso la risposta è semplice e, quindi, ci permettiamo di invitare tutti a concentrare l’attenzione non sui termini “carta” e “web”, ma sulla capacità delle redazioni di produrre effettivamente contenuti interessanti, innovativi ed autonomi.
Altre due previsioni, tra loro collegate, nel progetto di legge attualmente in discussione, che potrebbero porre non pochi problemi: contributi vincolati alle vendite e tetti parametrati ai ricavi. Quali sono i pericoli?
È chiaro che queste norme sono volte ad evitare il fenomeno, presentatosi in passato, di giornali che non arrivavano nemmeno nelle edicole, essendo realizzati per mandare direttamente le copie al macero. Condividiamo pienamente lo spirito della norma, non la sua formulazione.
Innanzitutto quel fenomeno dei giornali-fantasma è già stato superato da precedenti riforme, per cui oggi parte del contributo è legato anche al numero di copie vendute in edicola, con esclusione delle vendite in blocco; inoltre la legge prevede anche che debbano essere rispettati dei parametri di efficienza tra il numero delle copie prodotte e quelle copie effettivamente vendute.
Ora si vogliono introdurre parametri molto più restrittivi. Ma bisogna fare attenzione, perché il risultato finale può paradossalmente arrivare a contraddire le finalità di questa legge, ovvero la tutela del pluralismo dell’informazione e quindi il sostegno all’informazione minoritaria. L’attuale norma così formulata non prevede che il contributo non possa essere superiore al totale degli altri ricavi, ma al 50% degli stessi; in altri termini, comunque, per come è scritta attualmente la norma, il contributo non può essere superiore al 33% dei ricavi. Per questa ragione – ed anche in linea con gli esiti del dibattito che si è svolto alla Camera – si ritiene che il principio della norma sia corretto, ossia che i ricavi da contributo non possano essere superiori agli altri ricavi, ma che gli stessi vadano limitati in una percentuale non inferiore all’80% degli altri ricavi, al fine di evitare che una declinazione di principio, corretta sotto l’aspetto teorico, in assenza di un’analisi specifica delle imprese, testimoniata dalla tabella proposta, determini la chiusura delle imprese oggetto di tutela. A tal proposito abbiamo predisposto una tabella desunta dai dati reali di alcuni quotidiani e periodici nazionali e locali, che mostra il contributo maturato nel 2014 e il contributo che avrebbero maturato con la “tagliola” del 50% prevista dal disegno di legge in discussione. Ebbene, i risultati sono esattamente quelli attesi: i quotidiani locali subirebbero un taglio a volte enorme del contributo e sarebbero costretti alla chiusura, mentre periodici e quotidiani nazionali riceverebbero mediamente contributi molti più alti, arrivando addirittura in un caso a triplicare l’attuale livello contributivo.
Cooperative giornalistiche e il mondo del non profit lamentano una differenziazione iniqua, a cosa si riferiscono?
La norma nell’attuale formulazione prevede che il Governo nell’ambito della propria delega debba prevedere l’esclusione dalla platea dei beneficiari per le imprese editrici di quotidiani e periodici partecipate da cooperative, fondazioni ed enti morali in tre anni. Si tratta di fissare per legge, anzi per delega, la chiusura di un mondo essenziale per il pluralismo, con ricadute occupazionali molto importanti e la chiusura di diverse testate giornalistiche. Eppure il settore del non profit, ed il suo sviluppo in ambiti di particolare valore sociale, come quello dell’informazione, sembrano parte essenziale di un percorso di razionalizzazione del sistema di sostegno al pluralismo. In questa prospettiva riteniamo interessante che questa Commissione approfondisca questo tema valutando bene gli effetti in termini di pluralismo e di impatto occupazionale di una norma del genere che potrebbe, invece, essere temperata introducendo un sistema di controllo specifico per questo tipo di soggetti che nel panorama italiano rappresentano una specificità molto interessante e, in buona parte, un modello anche per il futuro dell’informazione.
Nel disegno di legge si parla anche dell’esclusione delle pubblicazioni di carattere tecnico, specialistico e scientifico.
Da un lato esiste il problema dei criteri di valutazione e, dall’altro, il rischio di escludere dai soggetti qualificati proprio gli editori che si caratterizzano per la qualità dell’informazione prodotta. In altri termini, con una norma del genere si rischia di favorire tra una pubblicazione generalista di gossip ed una tematica, ma di qualità, la prima. Crediamo, quindi, che sia necessaria una riflessione sul contenuto di questa delega alla luce dell’esigenza di evitare che un principio condivisibile crei un potere arbitrario di valutazione dei contenuti, ripercorrendo l’esperienza del ministero di Cultura popolare, e, al contempo di discriminare pubblicazioni di elevato valore.
Una buona riforma in tempi brevi è possibile?
Da operatori del settore, riteniamo che la riforma sia non solo utile, ma necessaria.
Concordiamo anche sulla necessità di procedere alla stessa con urgenza, in modo da introdurre uno strumento di politica industriale e culturale che preservi il pluralismo, che è un valore per il nostro Paese.
Una buona riforma può essere approvata anche con tempi celeri, ma tenendo conto della realtà; in questa prospettiva abbiamo sviluppato le nostre riflessioni su alcuni punti cardine del testo in discussione.
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