Per capire la portata della ‘rivoluzione’ è bene partire da una serie di dati e cifre. La forza del gruppo Murdoch, riconosciuto colosso di carta e tivvù, è oggi meno di un quarto rispetto a Google, un’utilitaria rispetto ad una Ferrari, 80 miliardi di dollari contro 340. E le cifre dei social sono da brivido: 800 milioni di clienti-consumatori per Facebook, 700 milioni per WathsApp, 300 per Instagram, altrettanti (300) per Twitter. YouTube, controllata da Google, può contare su 1 miliardo di visite al mese con 400 ore di video scaricate al minuto. Ancora. Secondo un recente studio condotto dal “Pew Research Center” il 39 per cento degli americani legge le notizie di politica su Facebook, mentre un’ulteriore analisi porta a concludere che quasi un terzo degli adulti, almeno il 30 per cento, considera Facebook come la principale via d’accesso per tutte le notizie. Ancora più spinti i dati di “Media Insight Project”: addirittura l’88 per cento dei giovani va sulle notizie tramite Facebook. Anche in Europa tira la stessa aria: stando alle ultime rilevazioni (fonte Havas/Press Gazette) il 27 per cento degli utenti cerca notizie locali via Facebook, mentre l’11 per cento fa ricorso a Twitter.
Tutto nasce dalle nuove esigenze dei social e dai crescenti problemi dei media tradizionali. I primi stanno studiando tutte le strategie possibili per fidelizzare al massimo i lettori, facendo in modo che passino più tempo possibile sulle loro piattaforme, una sorta di cordone ombelicale da non recidere mai. Per questo intendono ‘inglobare’ le notizie dei big media, far in modo che nessuno, per leggere la notizia, esca dal recinto (in questo caso di Facebook), ma vi resti. Da qui gli spazi dedicati, le bacheche, dove New York Times & followers potranno essere presenti. Ma hanno bisogno, i social, di qualità dell’informazione, per non incappare in bufale che possano pregiudicare la loro credibilità e causare anche problemi legali. E’ qui che può nascere il matrimonio con i big dell’informazione tradizionale, i quali possono spendere le loro fiches proprio sul terreno della professionalità, della qualità dei loro prodotti mediatici. “Non è la prima volta che Facebook insegue il giornalismo – scrive ancora Titti Santamato per l’Ansa – ha iniziato con ‘Newswire’, un servizio che filtra e raccoglie contenuti notiziabili, poi con l’App ‘Paper’, una sorta di collettore di notizie selezionato da redattori”.
I secondi – i media tradizionali – in forte crisi di identità e soprattutto in forte crisi di liquidità, pensano ai possibili ritorni economici per le entrate pubblicitarie previste, smistate da Facebook & C., e all’aumento dell’audience, potendo raggiungere sterminate fasce di lettori mai esplorate. Così prosegue il report Ansa: “I numeri attestano che la piattaforma è una delle principali fonti di traffico per le testate giornalistiche. Una fonte ormai irrinunciabile nel ‘mobile’ e in tempi di giornalismo multipiattaforma dove i lettori vanno ‘acchiappati’ ovunque: sulla carta, su internet, sui social media, sulle App, sugli aggregatori e presto anche sulla tecnologia indossabile”.
Le prove ‘tecniche’ di fidanzamento – se non ancora di matrimonio, come pur presto sarà – tra il compassato New York Times e la giovane, rampante Facebook si erano svolte appena una decina di giorni prima, con un fondo del quotidiano stavolta formato scendiletto, a magnificare tutte le virtù della creatura di mister Zuckerberg. Emblematico l’incipit: “con 1 miliardo e 4 di utilizzatori attivi sparsi in tutto il mondo, il social network di Facebook è la cosa più vicina a una piattaforma universale di comunicazione. E la gente posta – o cerca di postare – tutto quello che è possibile immaginare”. Insomma, un universo democratico, felice e sconfinato. Il resto è una sorta di vademecum tutto etica & moralità, come è stato illustrato da Monica Bickert, che guida le politiche manageriali del gruppo: ovviamente bandite le organizzazioni terroristiche, così come ogni forma di divulgazione delle loro propagande.
Disco rosso per pornografia “o anche altre nudità”: ad esempio, “noi rimuoviamo foto di persone che mostrano i loro genitali”; così come per “contenuti che promuovano la violenza o lo sfruttamento sessuale”. Purtroppo, ammette Bickert, non è possibile intervenire in tempo reale per rimuovere immagini e contenuti che offendono la morale, ci vogliono spesso almeno 48 ore. Ma – sottolinea – “a volte la via migliore per distinguere l’informazione dalle atrocità nel mondo è proprio Facebook. E sappiamo che questa è una grande sfida”. E la ciliegina finale non può che essere un estratto dal verbo di Zuckerberg: “vogliamo dare più voce possibile a più gente possibile”.
Musica, di sicuro, per molti editori, attirati dalle sirene di possibili freschi – fino a ieri non previsti – introiti, e nuove platee di audience. Ma c’è chi si spinge anche più in là: e parla di possibile accesso, se il matrimonio funziona, a tutti quei “dati sensibili” sui lettori che rappresentano la grande “cassaforte” dei social. Così commenta il giornalista ed esperto di media Jeff Jarvis, docente alla City University di New York: “Se dare articoli a Facebook garantirà ai giornali l’accesso a quei dati sui lettori, allora i media potranno finalmente imparare a fornire servizi personalizzati. Bisogna saper negoziare: o l’accesso ai dati o nulla”. Insomma, un’industria editoriale che può avviarsi a confezionare articoli su misura, se tutto va bene.
Un po’ diverso lo scenario secondo un’altra giornalista e grande esperta di new media, Emily Bell, per anni responsabile del Guardian digitale e ora docente alla Columbia University: “E’ in gioco la libertà d’informazione – sostiene – perché occorre capire quale capacità contrattuale avranno i giornali di fronte a colossi come Facebook”. E fa un esempio concreto: “In base a quale algoritmo Facebook deciderà quali contenuti mostrare e in che modo?”. La famosa domanda da un milione di dollari.
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