L’1 ottobre 2012 il Tribunale di Livorno ha condannato una giovane estetista a risarcire il proprio ex datore di lavoro per aver pubblicato su Facebook affermazioni diffamatorie nei confronti di quest’ultimo. La vicenda nasce dal licenziamento della ragazza dal Centro estetico presso il quale lavorava. Il giorno successivo la ex dipendente pubblica sulla propria bacheca di Facebook una serie di messaggi volgari e dal tenore chiaramente denigratorio della professionalità del centro estetico, sconsigliando a chiunque di frequentarlo. Pubblica anche dei messaggi contenenti epiteti offensivi nei riguardi del gestore del centro estetico, facendo riferimento alla sua nazionalità albanese. L’ex datore di lavoro la querela per diffamazione.
La giovane si difende negando di aver scritto i messaggi su internet. In particolare, sostiene la difesa che è impossibile attribuire con certezza la paternità di uno scritto o un messaggio al titolare apparente del “profilo”, sul quale lo scritto viene pubblicato. Sotto l’apparente identità del profilo può, infatti, nascondersi un autore diverso dal titolare del profilo stesso, che, compiendo un “furto di identità”, utilizzando indebitamente l’altrui profilo, scrive sotto falso nome.
La tesi difensiva non viene considerata valida dal Tribunale. Il Giudice, nel provvedimento di condanna, rileva, innanzitutto, che la difesa non ha contestato che la ragazza abbia lavorato presso il centro estetico; circostanza, peraltro, confermata dalla stessa giovane in un commento su Facebook, nel quale riferisce del licenziamento. Gli scritti incriminati sono, dunque, pienamente riferibili all’imputata.
Inoltre, proprio i pregressi rapporti professionali tra le parti vengono riconosciuti quale movente per l’uso improprio del mezzo informatico di comunicazione in danno del decoro e della reputazione dell’ex datore di lavoro.
Ma la pubblicazione di scritti offensivi su Facebook può configurare l’ipotesi aggravata di diffamazione di cui all’art. 595 comma 3 c.p.? Secondo il Tribunale, sì. L’art. 595 c.p. punisce chiunque, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione. Il comma 3 prevede una pena più grave qualora l’offesa sia arrecata con il mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità. L’aggravamento di pena si giustifica con la diffusione dei contenuti ad un numero indeterminato di persone e per la particolare intensità offensiva dei reati commessi mediante l’utilizzo di tali mezzi.
Ma la pubblicazione su Facebook può essere considerata “stampa” in senso giuridico? No, perchè la definizione di stampa è data dall’art. 1 della legge n. 47/1948, cosiddetta “legge sulla stampa”, il quale stabilisce che “sono considerate stampe o stampati, ai fini di questa legge, tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico chimici, in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione”.
Ma il sito del social network può essere considerato “altro mezzo di pubblicità” e giustificare, quindi, l’aggravamento di pena previsto dal comma 3 dell’art. 595 c.p.? A riguardo, il Tribunale di Livorno osserva che gli utenti del social network sono consapevoli del fatto che altre persone possano vedere le informazioni scambiate in rete. Tale effetto è, anzi, non solo accettato, ma voluto.
D’altronde, il social network nasce come piattaforma sulla quale si rendono pubbliche informazioni che, dunque, possono essere visualizzate da altre persone.
In particolare, gli utenti di Facebook sono consci dell’eventualità che altri soggetti possano prendere visione delle informazioni pubblicate sul sito, anche a prescindere dal loro consenso e possano, ad esempio copiare messaggi, fotografie e quant’altro, sottraendo così questo materiale alla disponibilità dell’autore.
Di fatto, dunque, qualunque contenuto pubblicato su Facebook è destinato ad essere conosciuto da un numero indeterminato di persone e ad essere oggetto di una incontrollata diffusione tra i partecipanti al social network. Può, quindi, affermarsi che ricorre senz’altro l’elemento del carattere “pubblico” del contesto nel quale viene pubblicato lo scritto offensivo.
La particolare diffusività del mezzo utilizzato per la pubblicazione del messaggio denigratorio comporta, quindi, che all’autore sia applicabile una pena più grave.
Ecco allora che, anche quando si scrive sul proprio profilo Facebook, occorre stare attenti. Non si può pubblicare tutto ciò che si vuole. Lo strumento del social network, per il suo stesso modo di funzionare, è pericoloso. Si può sempre “diffamare” qualcuno.
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