La vicenda trae origine dalla legge con cui il 31 dicembre 2012, nell’introdurre nel nostro ordinamento l’equo compenso giornalistico, venne istituita una Commissione prevedendo la decadenza del contributo pubblico per quei quotidiani, periodici, agenzie di stampa e tv, che non avessero garantito il rispetto dell’equo compenso. Per i giudici del Tar “la delibera introduce parametri di ‘equo compenso’ non proporzionati alla quantità e alla qualità del lavoro svolto e del tutto insufficienti a garantire un’esistenza libera e dignitosa al giornalista autonomo, in quanto le tabelle riconoscono e legittimano un sistema di lavoro ‘a pezzo’ o ‘a chiamata’ che vede aumentare la forza contrattuale degli editori, essendosi in realtà la Commissione limitata a fissare una sorta di ‘minimo garantito’, che peraltro non corrisponde all’equo compenso”, si legge nella sentenza. I giudici amministrativi hanno tuttavia anche ritenuto che l’equo compenso “neppure può corrispondere alle tariffe del ricorrente Ordine, che eliminerebbero ogni margine di contrattazione atto a valorizzare il rapporto di proporzionalità tra quantità e qualità del lavoro specificatamente svolto, in contrasto con le indicate finalità della legge”. Il Tar si è astenuto dall’esame delle censure riguardanti le tabelle allegate alla delibera e i relativi scaglioni previsti, in quanto l’accoglimento parziale del ricorso “comporta comunque l’annullamento dell’intera delibera impugnata, con il conseguente obbligo per la Commissione di procedere ad una sua tempestiva riapprovazione” in senso conforme alla sentenza.
QUI LA SENTENZA DEL TAR