Destinati a pagare. Gli acquirenti di smartphone, tablet, computer, e in generale di tutti i dispositivi in grado di salvare contenuti scaricati dalla rete, vedranno a breve applicata la tassa dell’equo compenso, introdotta in Italia dal decreto legislativo n.68 del 2003. Si tratta di una “royalty” pagata direttamente dai consumatori per compensare i detentori di diritto d’autore della possibilità che gli utenti hanno di usare quei dispositivi per fare una “copia privata” (legittima) di musica o film acquistati. Ogni aumento dell’equo compenso incide insomma sul prezzo finale del prodotto, nell’ordine di alcuni euro.
A stringere per definire gli aumenti è il ministro incaricato della questione, Dario Franceschini, che ieri faceva sapere: “Se le parti non trovano un accordo, stabiliremo gli aumenti d’imperio”.
LE PARTI IN CAUSA – Ma chi sono gli attori in cerca dell’accordo? Da una parte la Siae, destinataria dei quattrini sborsati dai consumatori, dall’altra i produttori dei dispositivi, rappresentati da alcune frange della Confcommercio e da Confindustria digitale.
IL NODO – Gli accordi, si sa, in Italia sono sempre complicati. Ma questa volta il Belpaese non è solo. Anche in altri Paesi Europei, come si può vedere da questi documenti pubblicati sul sito del Ministero, il contenzioso monta. La ragione? Con le nuove tecnologie la gente tende sempre meno a immagazzinare dati. Si usa lo streaming, che – com’è noto – utilizza internet per la fruizione dei contenuti. Non a caso, le memorie dei dispositivi vengono sempre meno utilizzate, in cambio di un potenziamento dei processori e dei sistemi operativi. A farlo notare, nel corso dell’audizione di ieri al Ministero della Cultura, è stato Marco Pierani, di Altroconsumo. “La decisione del ministro è in controtendenza rispetto ai risultati degli studi voluti dallo stesso Governo. Il download è obsoleto – fa notare Pierani – perché i consumatori puntano su altre tecnologie”. Vedremo cosa accadrà nei prossimi giorni.