L’equo compenso nel lavoro giornalistico è stato introdotto con la legge 31 dicembre 2012, n. 233. Si tratta di un istituto del tutto singolare nell’ambito dell’ordinamento italiano, in quanto prevede una sanzione per le aziende che non si adeguano ad un valore definito equo da una Commissione ministeriale per le collaborazioni giornalistiche. Senza entrare nel merito di questo provvedimento e senza ripercorrere con puntualità le tappe del controverso percorso che ha portato alla definizione dell’equo compenso, è utile ricordare che nella fase finale la Federazione nazionale della stampa ha dichiarato che l’accordo raggiunto consentiva di chiudere il contratto nazionale di lavoro giornalistico. Ossia due fattispecie che non hanno nessun rapporto, sotto il profilo giuridico né formale nè sostanziale. L’equo compenso, o meglio la definizione di un equo compenso, è un obbligo previsto da una legge dello Stato ed allora se la esse deve essere maiuscola dovrebbe essere vietato condizionare un adempimento con un atto di autonomia negoziale quale il contratto nazionale di lavoro dei giornalisti. E non solo; il contratto riguarda i giornalisti dipendenti, l’equo compenso i collaboratori, sono due categorie diverse che hanno esigenze ed interessi diversi. L’impressione è che in questo grande caos la tutela di qualcuna sia stata sacrificata rispetto agli interessi di qualcun altro. A far male si fa peccato, ma spesso ci si indovina, diceva qualcuno. Ma non è finita qui. E no, perché firmato il contratto nazionale la Fieg e la Federazione nazionale della stampa sono andati dal sottosegretario Lotti per definire un protocollo d’intesa sulle modalità di utilizzo del Fondo straordinario per l’editoria. Ora, forme a parte, si torna al problema giuridico delle fonti. E si, perché il Regolamento è anch’esso atto formale di adempimento di una norma che nell’attribuire una delega al Governo ne ha fissato i limiti ed i criteri. Infatti il comma 261 dell’articolo 1 della legge 27 dicembre 2013, n. 147, prevede che il Fondo è destinato ad incentivare gli investimenti delle imprese editoriali, anche di nuova costituzione, orientati all’innovazione tecnologica e digitale, a promuovere l’ingresso di giovani professionisti qualificati nel campo dei nuovi media ed a sostenere le ristrutturazioni aziendali e gli ammortizzatori sociali. Nulla a che vedere, quindi, con il rinnovo del contratto nazionale di categoria e ancor meno con l’equo compenso. Ora si attende la pubblicazione del Regolamento per conoscere la normativa di dettaglio. Ma se se di deve partire dal generale, come diceva qualcuno, allora ci sta ben poco da stare sereni.
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