«Il nostro obiettivo è disintossicare le testate dai contributi pubblici dando loro il tempo di accelerare la raccolta pubblicitaria». Luigi Di Maio, in veste di ministro per lo Sviluppo, annuncia alla commissione di vigilanza Rai l’arrivo nella legge di bilancio di un emendamento del governo che abbatterà in tre anni i contributi diretti all’editoria fino ad azzerarli del tutto.
«L’emendamento – spiega ancora il leader 5 Stelle – tutela le testate locali che hanno difficoltà a raccogliere la pubblicità con un tetto» (al di sotto del quale il finanziamento resta almeno nei tre anni, ndr)».
Il ministro – senza citarlo espressamente -, critica Avvenire (il quotidiano più grande che riceve i contributi diretti) e attacca invece in modo aperto Radio Radicale: «Controllassero i loro costi, ci sono radio sul mercato che spendono molto meno».
Il ministro, già che c’è, annuncia anche il varo di un canale Rai Istituzioni che, in prospettiva, forse potrebbe svolgere la funzione di cronaca parlamentare svolta oggi dalla radio fondata da Pannella.
Una radio, per inciso, che non trasmette altro che requiem (l’unica musica diffusa) e cronache integrali di processi o eventi politico-istituzionali, con un archivio digitale pubblico sterminato e inestimabile.
«Libertà di informazione è non dipendere da un emendamento alla legge di bilancio»Il paradosso Di Maio
Di Maio dà la sua motivazione per questi tagli: «Libertà di informazione è non dipendere da un emendamento alla legge di bilancio».
Un ragionamento paradossale, perché è proprio un suo emendamento alla legge di bilancio a mettere a rischio la libertà di informazione. Senza il suo emendamento, infatti, il fondo per il pluralismo resterebbe governato dalla legge e non dall’arbitrio di un ministro.
IL DIPARTIMENTO EDITORIA oggi ha solo una funzione amministrativa: un risultato storico raggiunto soltanto nel 2017 dopo un duro scontro con il governo Renzi sulla stessa identica materia («Un solo padrino», titolammo allora con una foto in prima pagina regalataci da Al Pacino con in mano il manifesto).
All’epoca Renzi accarezzava la pancia grillina con i tagli ai giornali ma finì per far approvare una legge seria e dai costi contenuti.
Una legge parlamentare, però, non un atto del governo in una manovra di fine anno blindata da una tripla fiducia con nessuna discussione in commissione o in aula.
Un modo di legiferare che se l’avesse fatto il premier di Rignano i 5 Stelle si sarebbero incatenati ai portoni delle camere in diretta Facebook.
Invece va così: un Def carta straccia, una fiducia alla camera su un testo vuoto, la commissione Bilancio del senato costretta ieri a chiudere i lavori per mancanza dei testi da parte del governo.
Mentre a due settimane dall’esercizio provvisorio il ministro dell’Economia è chiuso a Bruxelles in trattativa perenne con la commissione non solo sulle misure concrete ma perfino sui saldi della manovra.
Uno spettacolo indecente a cui, purtroppo, le istituzioni e il paese sembrano rassegnati.
LA LEGA FA IL PESCE in barile. C’è chi parla di accordo chiuso direttamente da Salvini, che avrebbe scambiato la chiusura dei giornali tanto cara ai 5 Stelle con altre contropartite nella manovra, magari fatte di cemento e tunnel e non di povera carta.
La pressione sulla maggioranza però è fortissima. Assordante.
Si sgolano da giorni i parlamentari di Pd, Leu, Fdi e Forza Italia contro i tagli al pluralismo.
La presidente del senato è intervenuta già due volte negli ultimi giorni. Mattarella addirittura sette. (Fico non pervenuto).
Ma lo scandalo monta anche fuori dal parlamento.
Soltanto nella giornata di ieri hanno chiesto al governo di astenersi dal taglio l’Associazione stampa parlamentare, l’ordine nazionale dei giornalisti e il sindacato Fnsi, la Federazione della stampa cattolica (Fisc), tutte le associazioni degli editori medio-piccoli.
Alla vigilia dell’inevitabile rodeo della fiducia, dopo gli ordini del giorno approvati in moltissimi enti locali, è quasi costretta a intervenire anche la Conferenza Stato-Regioni, il cui presidente Bonaccini chiede al governo non solo di tutelare le radio-tv locali nella nuova graduatoria unica per il riparto dei fondi pubblici ma anche di non cancellare il fondo per il pluralismo per le testate storiche nazionali e non.
DI MAIO FA ORECCHIE da mercante. Se davvero fossero vere le bozze che girano del suo emendamento, si avrebbe il paradosso del taglio dei contributi diretti ai giornali in cooperativa e non profit dal 2019 e quello dei contributi indiretti (che vanno a tutti) dal 2020.
Sì, forse ha ragione: questa è davvero una politica tossica.
Articolo de Il Manifesto (https://ilmanifesto.it/governo-pronto-al-blitz-sui-contributi-editoria/)
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