La legge di riforma dell’editoria, entrata in vigore nell’ottobre 2016, è ad un passo dal perfezionamento, con gli attesi decreti attuativi che dovrebbero essere emanati dal Governo entro il prossimo maggio. In queste ore, sulla bozza di decreto delegato, sono chiamate a pronunciarsi con propri pareri le commissioni competenti di Camera e Senato. La File (Federazione italiana liberi editori) ha fatto sentire la sua voce presentando una propria memoria con cui propone alcuni correttivi. Ne parliamo con il presidente, Roberto Paolo, vicedirettore del “Roma” e presidente del Cda della cooperativa editrice del quotidiano napoletano.
Presidente, siamo ad uno snodo di vitale importanza per l’editoria no profit. La riforma è ad un passo dall’essere completata, eppure per la File qualcosa ancora non va. Cosa?
«Mentre con una mano il Governo si appresta a varare i decreti attuativi della riforma, allo stesso tempo con l’altra mano la sta svuotando di significato».
Cosa succede?
«Due sorprese. La prima: nell’ottobre scorso, con la legge di riforma dell’editoria si è creato un Fondo per il pluralismo, dotandolo di proprie risorse economiche. Una rivoluzione per l’editoria no profit, che del pluralismo dell’informazione in Italia è la vera garanzia. Ma con la manovrina che verrà presentata la settimana prossima in Senato, si toglie al Fondo la maggior parte delle sue dotazioni economiche, i 100 milioni di euro derivanti dall’extragettito del canone Rai. Quello che è stato messo ad ottobre, viene tolto ad aprile. Una vera e propria beffa».
E la seconda sorpresa?
«L’altra grande novità della riforma consiste nell’anticipazione del contributo prevista per il mese di maggio, mentre in passato le aziende per vedere qualcosa dovevano aspettare il dicembre dell’anno successivo a quello in cui si erano spesi i soldi. Bene, questo maggio le cooperative aspettavano l’anticipazione promessa dalla legge. E così nessuno è andato cercare credito dalle banche. Invece il Ministero dell’Economia e finanza non ha provveduto a decretare il riparto provvisorio del Fondo, forse anche perché con la manovrina di cui sopra non si ha neanche certezza di quanti soldi ci saranno nel Fondo. Quindi niente anticipazione a maggio, a meno di svolte dell’ultima ora».
C’è di che essere sfiduciati sul futuro della riforma…
«Beh, è una riforma che viene uccisa nella culla. Sorprende che Luca Lotti, da neo ministro dello sport e dell’editoria, si lasci affossare la riforma che proprio lui ha fortemente voluto quando era sottosegretario all’editoria del Governo Renzi».
Però ora stanno per essere varati i decreti attuativi. Quali sono state le vostre proposte in merito?
«Abbiamo presentato un documento articolato per sottolineare la necessità di alcuni possibili miglioramenti al testo del Governo. In particolare vanno chiarito alcuni aspetti lasciati troppo vaghi dalle norme che potrebbero dar luogo a difficoltà interpretative, ma soprattutto chiediamo paletti più rigidi, in particolare riguardo i contributi all’editoria digitale, per evitare di creare maglie troppo larghe e scarsamente controllabili, che sarebbero terreno fertile per i furbacchioni di turno. Non vorremmo che, dopo tanti anni di giusta severità nell’erogazione dei contributi pubblici, ora con il digitale si ripetessero gli errori di un lontano passato che tanti scandali hanno generato».
Un esempio riguardo le difficoltà interpretative di cui parlava?
«La legge introduce finalmente il concetto di socio sovventore, limitandolo giustamente a soggetti qualificati a cui questo ruolo è riconosciuto dallo Stato, quindi non privati cittadini. Va benissimo. Occorre però chiarire che a questi soggetti non possono applicarsi le norme che impongono ai soci delle cooperative editrici di non partecipare a più di una cooperativa, altrimenti il socio sovventore potrebbe finanziare una sola cooperativa. Lo stesso si dica per i limiti alle quote sociali che ogni socio può avere. Vanno benissimo, ma non possono valere per i soci sovventori, altrimenti si vanifica lo scopo di apportare appunto capitale».
E quali sarebbero, secondo la File, le maglie larghe del decreto attuativo?
«Per esempio, per quanto riguarda la carta stampata, si introduce un premio per i giornali che fanno con i licei percorsi di formazione scuola-lavoro, pari all’un percento in più del contributo pubblico che spetta loro per ogni progetto attivato. Ma non si pone nessun limite al numero di progetti attivabili da ciascun giornale. Così si rischia di trasformare i giornali in “ginnasi”: se io metto i giornalisti a cercare licei per fare la formazione scuola-lavoro e attivo 50 progetti in un anno, ottengo il 50% in più dei contributi che mi spetterebbero. Si tratta di centinaia di migliaia di euro. Una tentazione per chiunque. Facile che tra qualche anno vedremo degli eccessi. Ma è sui contributi ai siti internet che si rischia di stimolare appetiti di eventuali speculatori».
In che senso?
«La filosofia di questa legge è di incentivare la trasformazione della informazione stampata in informazione digitale. E già su questo ci sarebbe molto da dire, ma non è questa la sede. Nell’applicare questa filosofia, però, si è andati un po’ oltre. Chi ha un sito di informazione ottiene un contributo pari al 75% dei costi sostenuti, anche se in questo settore non ci sono parametri certi per giustificazione i propri costi, come invece ci sono per l’acquisto della carta e la stampa dei giornali, che sono matematicamente rapportabili in materia certa alle copie distribuite e a quelle vendute. Cosa succederà? Probabilmente fioriranno siti internet che avranno solo 5 giornalisti part time, con costi del personale molto ridotti, e invece costi per l’innovazione digitale di milioni di euro. Tanto paga lo Stato. E c’è anche una previsione peggiore».
Quale?
«Quel 75% dei costi rimborsabili dallo Stato passano addirittura al 95% nel caso di “costi della gestione di piattaforme e applicativi dedicati all’ampliamento dell’offerta informativa telematica e per l’utilizzo della rete”. Lei ha capito di cosa si tratta?».
Io sinceramente no.
«Neanche io. Ci può entrare qualsiasi cosa. Ma posso pensare che si tratti per esempio di costi per pagare una società terza che ci crea un software per rendere più performante la navigazione sul nostro sito internet dagli smartphone. O la creazione di una app per cellulari e tablet. Ma potrebbe essere anche l’attività di social media manager. Io pago una società terza e lo Stato mi rimborsa il 95% di quanto pago. Un malintenzionato potrebbe essere fortemente tentato di creare delle sovrafatturazioni, quando non addirittura delle false fatturazioni. Il tutto senza avere alle spalle uno straccio di redazione giornalistica seria. Perché la legge glielo permette».
E che soluzioni proponete voi della File.
«Ripeto: meglio paletti rigidi fin da subito che correre a chiudere i cancelli quando i contributi sono fuggiti e gli scandali sono scoppiati. Quindi, innanzitutto, contenere i contributi entro dei limiti fissati dalla capacità dell’impresa editoriale di creare lavoro. In fondo si tratta di editoria no profit, imprese fatte da cooperative o fondazioni o enti morali. Creare lavoro rientra nelle loro finalità e assicura anche, per il pluralismo, una garanzia di professionalità. Quindi riconosciamo pure il 75% o il 95% dei costi dei siti di informazione, a patto però che siano dotati di vere redazioni giornalistiche. E quindi in una misura che non possa mai superare il 50% dei costi sostenuti per il personale. Non è pensabile che un’impresa editoriale abbia costi per i software di milioni di euro se impiega forza lavoro professionale per poche centinaia di migliaia di euro. Deve esserci un rapporto tra le due cose».
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