Editoria, cercasi nuovi modelli di business tra il gratis ed il “pay”. Il futuro? Nel digitale e nelle notizie su misura

Quale sarà il modello di business dei giornali online? Saranno gratuiti o a pagamento? L’informazione si sposterà tutta sul web? Ci sarà ancora spazio per il quotidiano di carta? L’editoria digitale e la “profilazione” dei lettori cambierà il modo di fare giornalismo? Una sola risposta a tutti questi quesiti non c’è. Almeno non ancora. Di certo l’editoria sta attraversando un periodo di rapide trasformazioni. E il supporto elettronico sta progressivamente sostituendo la vecchia e amata carta.
Ma procediamo con ordine. E partiamo dalla gratuità dei contenuti, e in particolare delle notizie, presenti sulla rete. Ormai il web è associato con una zona franca in cui tutti i contenuti sono liberamente accessibili. Tuttavia il modello delle informazioni sempre gratuite non appare in grado di poter reggere a lungo. Infatti, anche se con un medium digitale, produrre contenuti costa. E la sola pubblicità, per ora, non basta a coprire le spese. Quindi le testate telematiche in un prossimo futuro potrebbero essere costrette a farsi pagare per le notizie. A partire dagli aggregatori di contenuti che non sempre “rimborsano” gli editori per utilizzare i loro articoli (vedi http://www.editoria.tv/editoria/carta-in-crisi-e-web-minacciato-dal-diritto-dautore-quale-informazione-per-il-futuro-2/).
Alcuni gruppi editoriali europei, in proposito, hanno le idee chiare. Per l’ad di Axel Springer, Mathias Dopfner, sono “meglio 100 mila utenti paganti che 1 milione gratis”. Per il manager del gruppo editoriale tedesco un informazione di qualità non può essere integralmente gratuita. “Un giornale costa”, ha precisato Dopfner. Il quale ha mandato un dirigente del Bild Zeitung (quotidiano popolare tedesco fondato proprio da Axel Springer) a “studiare” negli Usa per approfondire il modello americano.Da qui la sensazione che il gruppo tedesco abbia in mente un futuro “pay”. Ma anche più digitale. Infatti la società teutonica venderà tutta la sua stampa regionale, le guide tv e le riviste femminili alla Funke Mediengruppe. L’obiettivo è concentrarsi sull’editoria digitale in modo da arrivare al 2020 con il 50% degli introiti derivanti dall’online. Springer cederà gli asset ritenuti non strategici alla Funke per 920 milioni di euro. Di cui 660 dovrebbero arrivare direttamente dall’acquirente; e 260 da un prestito erogato dalla Springer e rimborsabile in sette anni.
Passiamo ora in Spagna. Nazione diversa, ma progetti editoriali simili a quelli teutonici. Juan Luis Cebrian, presidente del gruppo Prisa che edita El Paìs, il principale quotidiano iberico (con una diffusione di 300 mila copie) vorrebbe infatti puntare sull’online prendendo ad esempio proprio il modello statunitense. “Negli Usa la carta si usa solo nei supplementi del week end. Serve una organizzazione differente. Sarebbe meglio diffondere le notizie su una piattaforma multimediale diffusa su ogni tipo di terminale. Inoltre il mondo dei media è cambiato profondamente. Un sito web di una radio è in competizione con un quotidiano online, due mezzi di comunicazione che fino a qualche tempo fa non erano rivali”, ha spiegato Cebrian. In effetti da 2007 al 2012 la raccolta delle inserzioni cartacee è crollata del 60%. E sono stati persi 200 milioni. Il 2012 è stato il primo anno di crisi vera per El Paìs. Non a caso nell’anno appena trascorso sono stati mandati a casa il 30% dei dipendenti. Invece il digitale va bene. Il foglio del gruppo Prisa vanta 18 milioni di visitatori unici mensili (il 50% del totale dell’intera Spagna). Ovvero un lettore digitale su due consulta El Paìs via Internet.
Passiamo ora alla situazione dell’editoria nel paese “a stelle e strisce”, dove vige il modello più volte indicato come punto di riferimento dagli editori del Vecchio Continente e dove i ricavi digitali arrivano già all’11% del totale. Il trend, negli Usa, è in crescita. Nel 2012 sono arrivati 36,6 miliardi dalla pubblicità digitale, di cui 3,4 su dispositivi mobili (+15% rispetto al 2011). Ad esempio il Wall Streel Journal può contare su 900 mila utenti abbonati digitali al giorno (+12% rispetto al 2012). Il New York Times arriva a 1,1 milioni (+18%); e il 61% degli abbonamenti totali è online. Il modello scelto dagli editori americani sembra essere quello “misto”. Per capirci, il Nyt fa così: fino a tre articoli al giorno li offre gratis al lettore; dal quarto, però, si paga. Ma non ci sono ancora i margini sufficienti per arginare l’emorragia della carta. Per ogni dodici dollari persi il web ne restituirebbe solo uno.
Nel 2007 l’editoria tradizionale poteva contare su 43,1 miliardi di dollari; nel 2012 si è scesi a 19,4. Inoltre si prevede che le inserzioni continuino a calare dell’8% all’anno, arrivando nel 2020 a 9,6 miliardi (vedi ancora http://www.editoria.tv/editoria/carta-in-crisi-e-web-minacciato-dal-diritto-dautore-quale-informazione-per-il-futuro-2/).
Non si può parlare di editoria made in Usa senza fare cenno alla vendita del Washington Post alla famiglia Graham (che lo ha custodito per decenni) a Jeff Bezos, il fondatore di Amazon. Il costo dell’operazione è stato di 250 milioni di dollari. Le ristrutturazioni fatte dai dirigenti non sono bastate per rilanciare il quotidiano fondato nel 1877. “Avevamo potuto continuare a sopravvivere. Ma noi vogliamo di più”, ha spiegato l’ad del Wp, Donald Graham. E la solidità finanziaria di Bezos (che ha speso l’1% del suo patrimonio personale di 250 miliardi di dollari) dovrebbe garantire un progressivo ma tranquillo rilancio del quotidiano. Con una riconferma generale dei dirigenti e dei 2 mila dipendenti. In ogni caso le modalità di rilancio e il piano industriale di Bezos non sono ancora chiari. Il giornale potrebbe anche cambiare i connotati sotto la guida di Bezos. Amazon ha già dimostrato la capacità di usare i “Big Data” (ovvero i dati sensibili che riversiamo più o meno consapevolmente in rete ogni giorno e che vengono raccolti dai colossi del web) per profilare i propri clienti e gli utenti in generale. Qualcuno ha anche ipotizzato un Washington Post fatto “su misura” dell’utente, con contenuti specifici. Magari accompagnando il tutto con una “pubblicità intelligente” che farebbe leva proprio sui gusti particolari dell’utente. Vedremo.
Ritornando alle vendite di testate storiche, è passato di mano anche il settimanale Newsweek, fondato nel 1833 proprio dal gruppo del Washington Post. Ma la sorte del magazine non è stata propizia. Nel 2009 è iniziata la crisi. A fine 2012 si è deciso di passare integralmente al digitale, dicendo “addio” alla carta. Ecco che fu venduto al sito The Daily Beast che lo ha pagato il prezzo simbolico di un dollaro. Ma la ripresa, anche utilizzando le potenzialità del web, non c’è stata. E ad inizio agosto Newsweek è passato a Ibt Media, “una società semisconosciuta – ha scritto La Stampa – che pubblica The International Business Time”.
Passiamo ora al New York Times che sembra mettere le basi per affrontare il futuro. Il piano dell’ad del Nyt, Mark Thompson per la fine del 2013 e il 2014 sembra chiaro e puntuale: abbonamenti “mini”; più video; più attenzione all’estero; servizi di e-commerce e contenuti premium per gli utenti “fedeli”. C’è da dire che la crisi non ha risparmiato nemmeno il gruppo del Nyt. Il quale, infatti, ha venduto il Boston Globe a John Henry (proprietario della squadra di baseball Red Sox) per 63 milioni di dollari (il 7% del prezzo che pagò il Nyt nel 1993, ovvero 1,1 miliardi di dollari). Sempre per superare al meglio la crisi il quotidiano diretto da Jill Abramson potrebbe prevedere un costo anche per i commenti illustri e gli editoriali delle penne più influenti del giornale. In altre parole anche le classiche risposte alle domande del lettore o ad osservazioni varie potrebbero essere oggetto di un abbonamento. È quanto emerge da una indagine del New Republic fatta proprio all’interno della redazione del Nyt. Anche in questo caso, per verificare la fattibilità di tale piano bisogna attendere.

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