EDITORE WEB TV CITATO IN GIUDIZIO PER ABUSO PROFESSIONE GIORNALISTICA

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La Procura di Pordenone ha citato in giudizio l’imprenditore Francesco Vanin, responsabile della prima web tv locale, la PN-BOX tv, figlia dell’era del web 2.0, accogliendo la denuncia depositata nel maggio 2010 dal presidente del Consiglio Regionale dell’Ordine dei giornalisti del Friuli.

Per la Procura, Francesco Vanin – così come riportato dall’avv. Guido Scorza sul blog “Wired” – “in qualità di responsabile delle trasmissioni di PN BOX, televisione via web, senza essere iscritto all’albo dei giornalisti e senza aver registrato la testata” avrebbe svolto “attività giornalistica non occasionale diffondendo gratuitamente notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale specie riguardo ad avvenimenti di attualità politica e spettacolo relativi soprattutto alla provincia di Pordenone”.
Una vicenda che pone seri interrogativi sul futuro del “citizen journalism” in Italia e per riflesso sulla libertà di impresa su internet e di fare informazione nell’universo della blogosfera. Ma procediamo per gradi.
L’impianto dell’accusa sembra richiamare per certi versi le motivazioni della condanna per “stampa clandestina”(artt. 2, 5 e 16 L. 47/1948) comminata in appello circa un anno fa al giornalista e storico ragusano, Carlo Ruta, reo di non avere registrato il proprio blog di informazione civile “Accadeinsicilia.net” equiparato dai giudici a “prodotto editoriale” a tutti gli effetti.
Stavolta ad essere sottoposto al vaglio giudiziario (nonché all’accusa di un ordine professionale) è una micro web tv fondata nel 2006 dall’imprenditore Vanin (ora imputato) e ben rappresentata dallo slogan “la tivù che fai tu”. Si tratta di un progetto di comunicazione poi culminato in una start up iscritta regolarmente al ROC e con licenza Siae, avente lo scopo di trasformare dei cittadini in video reporter, autorizzati ad approfondire, raccontare e pubblicare gratuitamente sulla piattaforma (con pretese amatoriali) una storia di cui siano stati testimoni. Un esempio di web tv all’insegna dell’era del web 2.0, gestita da un team di 12 collaboratori, ispirata ai canoni del citizen journalism, ed in quanto tale, strumento messo a disposizione della società civile ma anche delle imprese e della amministrazioni locali. Un’iniziativa pur sempre improntata al business, in grado cioè di fatturare – come la stragrande maggioranza degli spazi sul web aventi fini divulgativi e di critica – grazie ai banner e alle inserzioni pubblicitarie figuranti accanto a contenuti messi a disposizione gratuitamente dai cittadini.
Un’attività che sarebbe valsa però al suo diretto responsabile la denuncia di un Ordine Professionale e la formulazione di una tesi d’accusa in un procedimento penale per esercizio abusivo della professione (art.348 c.p.), reato per cui l’editore rischierebbe una pena detentiva fino a 6 mesi di reclusione.
E per che cosa? Per aver svolto una mansione che compete anche agli amministratori di tutti quei blog, siti online e piattaforme di comunicazione gestite in chiave social come YouTube ma anche portali abbastanza popolari come YouReporter (da cui peraltro alcuni Tg nazionali attingono spesso con disinvoltura) e che danno l’opportunità a terzi (privati cittadini) di commentare o postare anche attraverso l’uso di uno smartphone, un video o un contenuto amatoriale per fini divulgativi o di critica.
“Stiamo tutti esercitando abusivamente l’attività di giornalisti?” si chiede con verve provocatoria l’esperto di Computer Law, l’avv. Guido Scorza. Un quesito che rimanda al paradosso piuttosto attuale per cui la libertà di espressione connessa con quella di fare impresa (nei limiti della legge), rischi di essere sempre di più appannaggio o dei detentori della proprietà intellettuale o di un ordine garante di una categoria professionale, specie se ad esercitarla sono gli utenti di un canale di comunicazione “partecipato” e democratico come internet.

Manuela Avino

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