Non hai le palle. Una frase, una provocazione che è diventata d’uso comune nei diverbi degli italiani.
Ma d’ora in poi è necessario prestare attenzione: dirlo, infatti, è reato.
Lo ha deciso la Cassazione il 31 luglio con una sentenza relativa a un’udienza dello scorso 26 giugno in cui la Suprema corte ha accolto il ricorso di un avvocato potentino, Vittorio G., contro il cugino Alberto G., giudice di pace a Taranto, che in tribunale durante una lite gli aveva appunto rivolto la frase ora incriminata.
La vicenda giudiziaria ha lunga storia.
Anche i magistrati di primo grado avevano infatti ritenuto offensive quelle parole, ma poi, in appello, il verdetto fu di innocenza e venne decretato (dal tribunale di Potenza con sentenza del 24 gennaio 2011) che l’accusa di ingiuria «non sussisteva» perché «mancava una effettiva carica offensiva alla espressione utilizzata dall’imputato’ in quanto proferita «nell’ambito di una contesa familiare».
Ma il legale di Vittorio aveva protestato, sostenendo che è lecito dire «non rompere le palle, equivalente all’invito a non intralciare l’opera di qualcuno» mentre lo stesso non vale quando, come nel caso in questione, si vuole dire «non hai gli attributi, ossia vali meno degli altri uomini».
Bisogna fare attenzione, quindi, soprattutto sul luogo di lavoro: dire a qualcuno che «non ha le palle» in questo ambiente, infatti, risulta un’aggravante.
Una questione di uomini, pare. Nella sentenza i giudici hanno infatti scritto che queste parole mettono in dubbio non tanto la virilità dell’avversario quanto la sua determinazione e coerenza, «virtù che a torto o a ragione continuano a essere individuate come connotative del genere maschile».
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