Strana storia quella del sostegno pubblico all’editoria, sempre al centro dell’attenzione, fonte di scandali perpetui; eppure nessun settore ha subito tagli lontanamente comparabili a quelli che la spending review ha imposto al comparto. In meno di dieci anni si è passati da circa 700 mni di euro di impegno pubblico all’anno a meno di 100 mni di euro, una riduzione di oltre l’ottantacinque per cento, se il principio tremontiano del tagli lineari fosse stato adottato in maniera analoga per tutti gli altri comparti il problema del Ministro dell’economia sarebbe quello di decidere come impiegare le risorse dell’avanzo di bilancio, il debito pubblico un lontano ricordo. Ma è anche vero che al posto del Ministero del lavoro ci vorrebbe uno della disoccupazione, se per ogni se c’è sempre un ma, per ogni taglio ci sta qualcuno che perde il lavoro. E quanto è accaduto nel settore dei giornali è stata una sorta di jihad che in nome del recupero, presunto, dell’efficienza, ha determinato la perdita di decine di migliaia di posti di lavoro, con il beneplacito, chiaro, dei sindacati troppo occupati a sedersi agli ennesimi tavoli di trattativa per trasformare il costo dell’intervento pubblico in ammortizzatori sociali. Molto interessante è stata la presa di posizione del Presidente della Commissione industria alla Camera, Mucchetti che, in una interrogazione parlamentare, ha chiesto se le nuove risorse stanziate possano favorire, in qualche modo, i manager delle imprese editrici, troppo spesso premiati per licenziare. E’ un modo per tornare a ragionare su un tipo di intervento possibile, dove si valutano gli effetti di quello che si fa, e di quello che non si fa. L’effetto della demagogia che ha caratterizzato le modifiche al sistema negli ultimi anni sono decine e decine di giornali chiusi e migliaia di persone a spasso. Ed il ritorno della politica a riflettere, nel senso letterale del termine, sul significato dell’intervento pubblico nel settore non è solo auspicabile, ma necessario.
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