MENTRE a palazzo Chigi è in gestazione la riforma dell’editoria, in Parlamento langue ancora quella televisiva presentata dal ministro delle Comunicazioni, Paolo Gentiloni, approvata alla Camera e ancora in attesa di ratifica da parte del Senato. L’urgenza è stata opportunamente richiamata ancora una volta dal presidente dell’Autorità, Corrado Calabrò, nella sua relazione annuale che è apparsa per diversi aspetti coraggiosa e anche appassionata. Dopo “trent’anni di incuria”, come ha detto lui stesso, il prossimo 2 agosto l’Autorità approverà finalmente un piano di assegnazione delle frequenze digitali, sulla base del “catasto” compilato d’intesa con il ministero. E qui bisognerà procedere con determinazione per “porre rimedio – come ha promesso Calabrò – all’attuale situazione di concentrazione, ridondanza e spreco di capacità trasmissive”. In concreto, ciò significa però obbligare i soggetti dominanti Rai e Mediaset a restituire allo Stato le frequenze in esubero che hanno occupato, per ridistribuirle fra gli altri operatori.
Ha fatto senz’altro bene il Presidente dell’Authority a citare in proposito “l’intimazione ultimativa” della Commissione europea ad approvare rapidamente la legge Gentiloni, e sostituire la precedente legge Gasparri per la quale l’Italia è stata sottoposta a procedura d’infrazione a Bruxelles in nome della concorrenza. In un Paese nel quale la televisione rappresenta ancora il principale mezzo di comunicazione, con l’85% della popolazione che guarda la tv, un consumo medio di circa quattro ore al giorno e il duopolio Rai-Mediaset che raccoglie l’84% delle risorse pubblicitarie, non è possibile indugiare oltre. La tutela del pluralismo s’impone come una scelta di civiltà.
Annunciata già per ieri e poi rinviata al Consiglio dei ministri di venerdì prossimo, la riforma dell’editoria si presenta a tutti gli effetti come una “legge di sistema”. Ma il rinvio di una settimana potrebbe consentire nel frattempo un’ulteriore messa a punto, anche alla luce delle osservazioni espresse dalla Federazione editori. L’auspicio è che non diventi un’occasione sprecata.
Il disegno di legge contempla, fra l’altro, una delega al governo a emanare un Testo unico sull’editoria. Si tratta perciò di un atto importante non solo per gli addetti ai lavori, ma anche per i lettori e per tutti i cittadini interessati alla libera circolazione delle notizie, delle opinioni e delle idee. Un passaggio decisivo, insomma, per costruire – appunto – un sistema dell’informazione più pluralista ed equilibrato, degno di un Paese civile.
E apprezzabile, innanzitutto, che la riforma ridefinisca il prodotto editoriale come “opera dell’ingegno”, escludendo i bollettini aziendali che erano compresi nella vecchia legge del 2001. Questo implica un diritto alla protezione dell’intelligenza e del lavoro umano, obbligando i soggetti che riproducono i testi nelle rassegne stampa a corrispondere un compenso da concordare tra gli autori degli articoli egli editori. E lo stesso regime giuridico e fiscale viene riconosciuto ai prodotti integrativi e collaterali, come inserti, supplementi, libri, cd o dvd, tranne ovviamente i gadget promozionali in senso stretto.
Altrettanto positivo appare il fatto che il disegno di legge introduca una nuova disciplina dell’impresa editoriale, comprendendo in questa categoria anche i siti Internet che finora costituivano una specie di giungla informatica, inestricabile e inesplorabile. E mentre viene abolita la registrazione delle testate presso il tribunale, in forza di un criterio di controllo o censura preventiva che risale alla legislazione fascista, in nome di una maggiore trasparenza e responsabilità subentra per tutti l’obbligo di iscrizione al Registro degli operatori della comunicazione. Una sorta di anagrafe editoriale, insomma, attraverso cui sarà possibile verificare l’effettiva proprietà delle aziende, la loro consistenza patrimoniale e la loro titolarità.
Ma proprio in considerazione della loro particolare natura e funzione, la riforma le sottopone al doppio controllo dell’Antitrust e dell’Autorità sulle comunicazioni: da una parte, sul piano della concorrenza; dall’altra, sotto il profilo del pluralismo. A differenza di quanto era trapelato nel corso dei lavori preparatori, resta in vigore il limite del 20% sulle tirature complessive dei quotidiani contro le posizioni dominanti, salvo la rispettiva crescita spontanea, senza l’introduzione di un nuovo tetto sul fatturato che avrebbe favorito smaccatamente alcune aziende a danno di tutto il mercato.
In base alle anticipazioni circolate negli ultimi giorni, la riforma modifica però le tariffe postali per la spedizione dei giornali secondo un meccanismo che potrebbe sottrarre risorse alle aziende editoriali. A quanto risulta, inoltre, il credito d’imposta per gli investimenti e l’innovazione viene ridotto in valore e durata. Sparisce poi completamente il credito agevolato sugli investimenti, proprio nel momento in cui invece dovrebbe essere rifinanziato. Allo stato degli atti, dunque, il provvedimento del governo non sembra in grado di rilanciare un settore che – in rapporto all’evoluzione tecnologica – sta vivendo un momento di profonda trasformazione.
Resta, infine, un punto chiave da chiarire. Il disegno di legge attribuisce all’Autorità sulle Comunicazioni nuovi poteri di controllo sull’editoria. E verosimilmente è opportuno che sia così, anche in considerazione del lavoro svolto finora nei settori della telefonia e della televisione. Ma senza un adeguato incremento delle risorse e un rafforzamento delle strutture, tutto ciò rischia di restare lettera morta. E un’Authority senza un’effettiva autorità non serve a nessuno.
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