Riscoprirsi disoccupato, a 50 anni, in Italia è davvero dura. Soprattutto se sai fare solo il “mestiere” di giornalista

Sì, mestiere, perché parlare di professione, per quelli della mia generazione e di quelle che l’hanno preceduta, è il termine più adeguato. Perché per noi l’accesso a questa professione è arrivato nel modo più classico: anni da “garzone di redazione” in un giornale o da corrispondente nel proprio paese, poi il sospirato tesserino da pubblicista destinato ai più costanti e ai più attenti alla lingua italiana, poi ancora altri anni di gavetta, finché il tuo redattore di riferimento si è accorto di te, ti ha segnalato finalmente al direttore e l’azienda ti ha concesso il praticantato.

Ottenere un “Articolo 1” è stato sempre roba da privilegiati, in un mare di precari, e più sono passati gli anni, più questo privilegio è diventato raro. Perché i giornalisti, per qualsiasi editore, soprattutto nel mondo della carta stampata, costano tanto e non “producono utili”, in un Paese poco incline a leggere.
Personalmente, in questi anni, mi sono chiesto tante volte cosa spinge tanti ragazzi a buttarsi in questo campo, accettando qualsiasi tipo di situazione, dal lavoro in nero allo sfruttamento vero e proprio. La passione sì, è il principale motore, ma non può bastare.

Ed allora penso che noi amanti del giornalismo siamo animati da vero e proprio spirito masochistico: ci piace lavorare ben oltre orario, accettare qualsiasi tipo di incarico, mettere da parte altri interessi, passioni, amicizie, spesso la famiglia, pur di scrivere il nostro articolo o servizio. Che il nostro lavoro sia remunerato o no, non conta: conta la soddisfazione di vederlo terminato, ogni santo giorno, ogni santa notte. Spesso lo scoramento prende capolino, la voglia di mandare tutto al diavolo, dedicarsi ad altro anima i nostri pensieri. Ma c’è già un altro lavoro da terminare che fa capolino… e si allora tira ancora dritto, all’infinito.

In questo girone infernale di “martiri della tastiera” gli editori si sono sempre trovati a proprio agio, tirando all’infinito il “tirocinio” di chi ha scelto questa passione come professione. E affidando sempre più il delicato compito di informare ai “dopolavoristi”, a coloro che hanno scelto di fare i giornalisti quale seconda attività o per il gusto di vedere la propria firma su un foglio d’informazione o in testa ad un servizio televisivo. Perché in Italia funziona così: io insegnante, bancario, o medico, posso fare il giornalista, per diletto o per arrotondare il mio stipendio; io giornalista, invece, non posso insegnare, lavorare in banca, o aprire uno studio medico.

In Italia, l’informazione non è in declino per crisi di vocazioni, come avviene in altri campi, ma perché, al contrario, tutti si sentono portati a scrivere, raccontare, commentare. Poco importa se hanno avuto un’adeguata formazione. E l’esplosione del fenomeno internet ha ampliato questa “invasione” di novelli testimoni della verità. Sinceramente, mi fa venire da ridere leggere sui dizionari la definizione di giornalista: “chi scrive per professione sui giornali”.
A 50 anni, dicevo, rimettersi sul mercato è un’avventura. Perchè il mercato non c’è più, in Italia: aziende editoriali “classiche” non ne nascono più, i tagli all’editoria hanno messo in ginocchio anche i giornali in cooperativa, baluardo dell’informazione libera.

Ci resta il web? In questo “diavolo” di mondo virtuale, come predicono tanti analisti, dipenderà anche anche il futuro dell’informazione?
Il futuro dell’informazione, forse sì. Quello dei giornalisti, chissà.
Intanto, comincerei a modificare nei dizionari la definizione di giornalista: “chi opera nel mondo dell’informazione, per professione, per seconda attività o per diletto”.

Antonio Bargelloni, giornalista Corriere del Giorno

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  • Chi commenta è Francesco, 36enne iscritto all'Albo dal 2012, relativamente poco per condividere lo stato d'animo di chi ha decenni di operato alle spalle, ma abbastanza per aver preso coscienza di quanto ormai l'informazione non sia più appannaggio degli addetti ai lavori, ma di chiunque si arroghi il semplice capriccio di dire la propria; testate giornalistiche improvvisate (che non pagano e chiudono entro 6 mesi utili solo per promuovere l'immagine di qualche figuro), moltitudini di blog... informazione, controinformazione, disinformazione, o più semplicemente opinione. Il tutto sommerge quanti in questo mestiere ancora ci credono, anche perché fondamentalmente lo sentono proprio. È quello che sanno fare, o meglio, che saprebbero fare se venisse loro offerta una possibilità. Privilegio ormai remoto, d'altri tempi...

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