Diritto ed economia dei mezzi di comunicazione n. 1/2003

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Le imprese che operano nel settore dell’informazione: tra normativa di settore e normativa di diritto comune

Premesse

L’esigenza di una riforma della disciplina in materia di editoria e di informazione è avvertita da molto tempo.

Nel corso della precedente legislatura è stata approvata la legge n. 62 del 7 marzo 2001, recante disposizioni “Nuove norme sull’editoria e sui prodotti editoriali e modifiche alla legge 5 agosto 1981, n. 416”.

E’ opinione di chi scrive che la legge in parola non abbia raggiunto lo scopo, pur dichiarato nella sua relazione di accompagnamento, di ridefinire l’intero settore normativo in relazione sia alle esigenze delle imprese che lavorano nel settore che al novero dei diritti, molti dei quali di rango costituzionale, che sono disciplinati e/o investiti da siffatta normative. Il presente lavoro si propone – sia pure con concisa sintesi – di dimostrare quanto appena rilevato e, al tempo stesso, di tratteggiare possibili percorsi per una ridefinizione ed una stabile regolamentazione della materia.

Non vi è dubbio che le riflessioni sull’oggetto del presente lavoro si complicano alquanto per il fatto di intrecciarsi con una duplice problematica di difficile soluzione. Per un verso l’intero settore è stato sempre esposto ad interventi contingenti e frammentari che a volte hanno rappresentato anche lo spazio di interferenze di carattere politico. Per altro verso la materia – proprio perché si riallaccia addirittura alle garanzie di funzionamento del sistema democratico – trova punti di vista contrastanti che sovente esprimono la difficoltà e la preoccupazione di collegare le tutele funzionali al mantenimento del sistema democratico con le esigenze di imprese esposte alle variabili del mercato che richiedono soluzioni rapide stabili ed efficienti. Il dato obiettivo è quindi nella difficoltà di coniugare la varietà degli aspetti appena segnalati.

1. L’oggetto sociale delle imprese editrici

Il primo comma dell’art. 1 della legge n. 416 del cinque agosto 1981, prevedeva che l’esercizio dell’impresa editrice di giornali quotidiani fosse riservato alle persone fisiche nonché alle società in nome collettivo, in accomandita semplice, a responsabilità limitata, per azioni ed in accomandita per azioni, ed alle società cooperative, sempre che non avessero per statuto oggetto diverso dall’attività editoriale, tipografica, o, comunque, attinente all’informazione[1].

La recente legge n. 62 del 7 marzo 2001[2], ha sostituito il comma dianzi descritto con il seguente: “l’esercizio dell’impresa editrice di giornali quotidiani è riservato alle persone fisiche nonché alle società in nome collettivo, in accomandita semplice, a responsabilità limitata, per azioni, in accomandita per azioni o cooperativa, il cui oggetto comprenda l’attività editoriale, esercitata attraverso qualunque mezzo e con qualunque supporto, anche elettronico, l’attività tipografica, radiotelevisiva o comunque attinente all’informazione e alla comunicazione, nonché le attività connesse funzionalmente e direttamente a queste ultime”.

E’ interessante svolgere alcune considerazioni sul cambiamento determinato da tale novella. L’art. 1 della legge n. 416/81 che limitava l’oggetto sociale e, pertanto, l’attività delle imprese editrici al solo settore editoriale era applicabile alle sole società; e per l’imprenditore individuale alla sola ditta che operava nel settore.

Lo spirito di questa norma era quello di dar vita ad imprese individuali e collettive che producessero unicamente informazione (si affaccia in tal modo l’immagine del c.d. editore puro) senza che all’interno della stessa impresa potessero coesistere scopi sociali diversi dall’editoria, al fine di evitare una sorta di commistione tra attività di informazione ed altri interessi economici.

La norma non poteva essere indirizzata nei confronti diretti del soggetto privato, di guisa da non consentirgli la possibilità di dare vita ad altre imprese in settori non editoriali; ciò avrebbe rappresentato una evidente lesione di diritti costituzionalmente protetti. L’interesse a delineare figure di imprenditori puri nel campo dell’informazione, dedicati in esclusiva all’editoria stava soprattutto nella trasparenza dei rapporti tra sistema complessivo dell’informazione – nel cui ambito collocare i meccanismi di controllo – ed imprese di settore, laddove il cosiddetto imprenditore “impuro” avrebbe potuto all’interno della sua attività rendere più difficile o addirittura sottrarsi ai meccanismi di controllo o, per altro verso, avrebbe potuto destinare alla sua impresa utili o contributi derivanti dall’attività editoriale o riportare perdite su altre attività.

Ad un più blando ambito di limitazione si appartiene il comma 11 dell’art. 11 della legge n. 223 del 6 agosto 1990[3] che prevede che: “la concessione non può essere rilasciata a società che non abbiano per oggetto sociale l’esercizio di attività radiotelevisiva, editoriale, o comunque, attinente, all’informazione ed allo spettacolo”.

In posizione affatto diversa si pone, invece, l’art. 2 della legge n. 62/01 a tenore del quale l’attività d’informazione deve rientrare nell’oggetto sociale, ma questo può avere un ambito più esteso.

Per il codice civile nelle società l’oggetto sociale deve corrispondere all’attività economica che queste intendono realizzare. La divergenza tra l’effettiva attività e l’oggetto sociale determina responsabilità degli amministratori in misura illimitata nei confronti della società e nei confronti dei terzi in buona fede[4]. Pertanto, l’esercizio dell’attività editoriale da parte di una società richiede che la stessa sia contemplata nell’oggetto sociale; cosa completamente differente è l’attività esclusiva.

La nuova disposizione merita di essere segnalata per il fatto che finisce per porre la società editoriale tra quelle di diritto comune, regolate esclusivamente dal codice civile, sottraendola, quindi, da quella specialità (impresa editoriale pura) che aveva alla luce della previgente legislazione e finendo per costituire un sistema normativo chiuso o, come sovente la si definisce, una normativa di settore. Da tale angolo visuale sembra non più corretto approcciare un problema delle società editoriali, giacchè queste hanno perso quella peculiare connotazione che le distingueva nella precedente legislazione. Ora restano aperti tuttavia, numerosi problemi e bisogna soprattutto continuare a chiedersi se una medesima esigenza di controllo dell’informazione sussiste ancora oggi per quanto concerne i profili delle concentrazioni, della trasparenza dei bilanci e via dicendo. Una risposta a tale quesito non è facile ed essa impone una più vasta ricognizione di istituti e strumenti normativi che possano soddisfare le esigenze appena intraviste. Pensiamo ad esempio che tra la legge del 1981 e quella del 2001 corrono tutta una nuova serie di controlli pubblici nell’impresa (Autorità per il mercato e per la concorrenza ed all’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, alle normative europee) e probabilmente questo nuovo quadro normativo generale deve essere visto in tale scenario.

Ulteriori considerazioni sovvengono circa il sistema delegato al controllo del rispetto della normativa relativa all’oggetto sociale. Il terzo comma dell’art. 2329 del codice civile prevede che: “per procedere alla costituzione della società è necessario (tra le altre) che sussistano le autorizzazioni governative e le altre condizioni richieste dalle leggi speciali per la costituzione della società, in relazione al suo particolare oggetto.” Le società editoriali non necessitano per la propria attività di alcuna autorizzazione[5]; inoltre, l’obbligo dell’adeguamento dell’oggetto sociale all’art. 1 della legge 416/81 è posto non come presupposto per l’esercizio dell’attività editoriale in genere, ma solo a carico delle società editrici di quotidiani o periodici con più di cinque dipendenti; ma, invero quale amministratore di società potrebbe, senza violare l’art. 2384 del codice civile, iniziare l’attività di un periodico, con meno di cinque dipendenti, se non in via strumentale rispetto ad un diverso oggetto sociale, qualora tale tipo di attività non sia prevista nell’oggetto sociale? Si può quindi sostenere che il rispetto dell’art. 1 della legge 416/81 non è presupposto per la costituzione della società e per la successiva iscrizione della medesima al registro delle imprese; ciò in quanto l’obbligo cade a carico delle società non al momento della costituzione ma bensì dal momento dell’effettivo esercizio dell’attività di edizione di un quotidiano o, nell’ipotesi di periodici, dal momento dell’assunzione da un anno di cinque giornalisti a tempo pieno. E’ quindi evidente che il rispetto dell’art. 1 della legge 416/81 rappresenta un obbligo derivante dall’esercizio sostanziale dell’attività editoriale e non dal semplice intento di effettuare tale attività.

L’autorità per le garanzie nelle comunicazioni[6] è l’organo amministrativo istituzionalmente delegato al controllo delle imprese che operano nel settore dell’informazione. L’art. 1, comma 6, lettera a, numero 6 della legge n. 249/97 prevede che sono obbligate all’iscrizione al registro degli Operatori della Comunicazione, tenuto dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, le imprese editrici di giornali quotidiani, di periodici e riviste[7]. E’ pacifico, quindi, che il controllo del rispetto della previsione del disposto dell’art. 1 della legge 416/81 è rimesso all’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni. Ma, per effetto del menzionato art. 2 della legge n. 62/01, tale controllo nella sostanza non riguarderà più l’applicazione di una norma speciale ma, cosa ben diversa, il rispetto di un principio di diritto comune.

In realtà la norma contenuta nella legge n. 62/01 è alquanto contradditoria in quanto, mentre per un verso colloca le società che esercitano l’attività editoriale tra quelle di diritto comune, mal si raccorda la normativa speciale appena richiamata che sembra presuppore una specialità delle società che esercitano tale tipo di attività. A sommesso avviso di chi scrive la prospettiva della specialità appare quella più confacente al complesso sistema di controllo e di incentivi che operano all’esterno di tali società, a tutela di un sistema pluralistico d’informazione, e che però ne rappresenta la condizione imprescindibile per lo svolgimento in concreto della loro attività. Va però aggiunto che non mancano opinioni tendenti a semplificare l’intero sistema affidandolo al solo controllo della logica di mercato. Ciò partendo dalla critica che il più delle volte l’impresa editoriale è un’impresa assistita che opera su un mercato non concorrenziale e fortemente esposto alle ragioni della politica. Ancora una volta nel sistema sono presenti tendenze e ragioni divergenti che finiscono per aumentare il disagio di chi opera nel settore dell’informazione.

2. La proprietà

La titolarità delle aziende è un altro aspetto di grande rilievo nella logica della disciplina delle imprese editrici.

Il primo comma dell’art. 1 della legge n. 416/81 prevede che l’esercizio dell’impresa editrice di giornali quotidiani è riservato alle persone fisiche nonché alle società in nome collettivo, in accomandita semplice[8], a responsabilità limitata, per azioni, in accomandita per azioni o alle cooperative[9]”. “Quando l’impresa è costituita in forma di società per azioni, in accomandita per azioni o a responsabilità limitata, le azioni aventi diritto di voto o le quote sociali possono[10] essere intestate a persone fisiche, società in nome collettivo, in accomandita semplice o a società a prevalente partecipazione pubblica. Nell’ipotesi in cui le azioni aventi diritto di voto fossero intestate a società di capitali, la partecipazione di controllo di dette società deve essere intestata a persone fisiche o a società direttamente controllate da persone fisiche[11]. Era, inoltre, vietata l’intestazione a società fiduciarie o estere della maggioranza delle azioni o delle quote delle società editrici di giornali quotidiani costituite in forma di società per azioni o in accomandita per azioni o a responsabilità limitata o di un numero di azioni o di quote che, comunque, consenta il controllo delle società editoriali stesse ai sensi dell’art. 2359 c.c.; analogo divieto vale per le azioni o le quote delle società che direttamente o indirettamente controllino le società editrici di giornali quotidiani[12]”.

La normativa in materia di proprietà delle quote di società editrici è, come si vede, alquanto stringente.

Diversa è la previsione per le società editrici quotate in borsa e per le partecipazioni detenute da società quotate; infatti, l’art. 3 della legge 416/81 prevede che: “Le società con azioni quotate in borsa che esercitano l’impresa editrice di giornali quotidiani o che siano intestatarie di azioni aventi diritto di voto o di quote di società editrici di giornali quotidiani o di società intestatarie di azioni o quote di società editrici di giornali quotidiani sono parificate alle persone fisiche ai fini dell’applicazione del terzo e del quarto comma dell’art. 1”; inoltre, il secondo comma del medesimo art. 3 della legge 416/81 prevede che: “l’intestazione delle quote o delle azioni delle società editrici di giornali quotidiani ad enti morali costituiti e registrati ai sensi degli articoli 14 e 33 cod. civ. è parificata all’intestazione a persone fisiche”.

Oggi il primo comma, lettera d, dell’art. 2 della legge n. 62/01 prevede che: “le aziende che esercitano l’impresa editoriale di giornali quotidiani sono ammesse ad esercitare la relativa attività solo se in possesso della cittadinanza di uno Stato membro dell’Unione europea, o in caso di società, se avente sede in uno dei predetti Stati. I soggetti che non hanno i predetti requisiti sono ammessi all’esercizio dell’impresa medesima solo a condizione che lo Stato di cui sono cittadini applichi un trattamento di effettiva reciprocità. Sono fatte salve le disposizioni derivanti da accordi internazionali”.

Tale previsione normativa assume rilevanza (rappresentando, uno dei pochi elementi di novità della legge n. 62/2001).

Infatti, per effetto del già citato comma 6 dell’art. 1 della legge n. 416/81 era vietata l’intestazione della maggioranza delle azioni o delle quote sociali a società estere, con gravi problemi in termini di contraddizione con la normativa comunitaria; rispetto alla quale non sembrava adeguata ma anzi in controtendenza rispetto ai processi di globalizzazione e di convergenza che dominano lo scenario delle imprese d’informazione.

Oltre all’apertura del mercato alle imprese comunitarie ed a quelle aventi sede legale in paesi che operano in condizioni di reciprocità, la recente legge ha apportato ben poche novità sostanziali rispetto alle previsioni della legge n. 416/81; ma prima della disamina dei punti critici che l’attuale impianto normativo pone rispetto ad un equilibrato sviluppo del mercato occorre verificare il senso che aveva, al principio degli anni ’80, la legge n. 416/81.

Prima di approfondire questa problematica è il caso di rammentare la ratio che aveva ispirato la legge n. 416/81 che si annunciò come prima disciplina in materia di editoria.

Da una prima lettura dell’impianto normativo si evince che l’esercizio dell’attività editoriale è, praticamente, consentito a tutte le imprese, a prescindere, dal tipo di organizzazione individuale o societaria prescelta. In realtà, la legge n. 416/81 escludeva dall’attività editoriale un soggetto che fino ad allora aveva rallentato lo sviluppo dell’industria editoriale: lo Stato. Infatti, se come detto, il comma 3 dell’art. 1 consentiva l’esercizio delle impresa editoriale alle società a prevalente partecipazione pubblica, il successivo comma 14 prevedeva che “dalla data di entrata in vigore della presente legge, gli enti pubblici e le società a prevalente partecipazione statale, nonché quelle da esse controllate, non possono costituire, acquistare o acquisire nuove partecipazioni in aziende editoriali di giornali o di periodici che non abbiano esclusivo carattere tecnico inerente all’attività dell’ente o della società. Appare evidente che la presenza di imprese a partecipazione pubblica rappresentava un ostacolo alla creazione di un mercato competitivo; infatti, il criterio dell’economicità rispetto a quello del profitto, e la possibilità di attingere a risorse pubbliche, anziché al capitale di rischio per coprire le eventuali perdite e, comunque, per finanziare la gestione creava un insormontabile motivo di distorsione del mercato. La legge n. 416/81 razionalizzava il sistema, impedendo la presenza diretta sul mercato di enti pubblici e vietando a tutte le imprese a partecipazione statale nuove acquisizioni e nuove intraprese.

Ipotizzare un obbligo immediato di cessione delle quote avrebbe rappresentato un evidente motivo di perdita di valore per tutte le imprese, dovendosi immediatamente collocare azioni e quote di diverse imprese editoriali. In tale ottica, l’efficacia della disposizione veniva collocata in un ragionevole lasso di tempo in cui veniva consentita la graduale cessione dei titoli partecipativi detenuti da società pubbliche e dall’impossibilità per le stesse di acquisirne di nuovi.

Se la previsione della legge n. 416/81 ha avuto un importante impatto sul sistema del periodo, la legge n. 62/01 nulla ha detto circa la posizione della pubblica amministrazione rispetto all’attività editoriale. Si potrebbe, quindi, ritenere che, alla luce della previsione previgente il problema non sussiste, in quanto è pacifico che la pubblica amministrazione non può svolgere attività editoriale se non con pubblicazioni tecniche inerenti l’attività dell’ente e della società. Ma il mancato coordinamento tra le diverse leggi, di cui si è detto in premessa, e le diverse interpretazioni consentite da una normativa vischiosa hanno determinato una diversa posizione nella realtà editoriale. La legge n. 150 del 7 giugno 2000, rubricata “Disciplina delle attività di informazione e di comunicazione delle pubbliche amministrazioni”, ha, giustamente, rafforzato il sistema di comunicazione dell’attività istituzionale da parte delle pubbliche amministrazioni: ciò in linea con la necessità di modernizzare il rapporto tra P.A. e cittadini e di rendere maggiormente trasparente l’attività della prima. La corretta volontà del legislatore di modernizzare l’attività dello Stato ha creato un punto di contrasto con la legislazione previgente laddove la legge n. 150/00 lascia intravedere la possibilità per le pubbliche amministrazioni di pubblicare in via autonoma giornali e periodici, entrando evidentemente in concorrenza con altre testate. In altre parole, la legge è volta a stimolare la comunicazione e l’informazione circa le attività della pubblica amministrazione; ciò non significa aver abrogato il contenuto del comma 14 dell’art. 1 della legge n. 416/81. La storia dell’informazione a mezzo stampa italiana è pregna di ingerenze da parte dello Stato, per secoli, il maggiore editore[13]. Il rischio è che, contro le presumibili intenzioni del legislatore, la legge n. 150/00 favorisca iniziative editoriali da parte delle pubbliche amministrazioni – in particolare quelle locali – drenando risorse istituzionalmente riservate al sostegno delle iniziative private e determinando evidenti distorsioni nel funzionamento del mercato. Sarebbe auspicabile che il legislatore, una volta giunto alla determinazione di produrre un testo organico di riforma dell’editoria, con lo stesso coraggio di quello del 1981, decida quale sia la funzione della pubblica amministrazione rispetto al mercato editoriale.

Un altro problema da affrontare è quello della possibilità per le società di avere partecipazioni nelle imprese editoriali. La legge n. 416/81 nasceva in un particolare momento storico in cui una forte crisi[14] investiva tutto il settore dell’informazione a mezzo stampa. L’esclusione dello Stato dal settore e la disciplina molto stringente in materia di partecipazioni tendeva a favorire la nascita ed il consolidamento di realtà editoriali autonome rispetto ad altri interessi di natura imprenditoriale e politica. I cospicui contributi previsti dalla legge n. 416/81 dovevano, in altri termini, essere indirizzati ad editori puri. Al contempo, la norma derogatoria in tema di società quotate tendeva a favorire l’accesso al mercato dei capitali da parte delle imprese di maggiori dimensioni, favorendo il processo di patrimonializzazione delle medesime. Quindi da un lato l’obiettivo del legislatore era quello di favorire la crescita delle imprese e, dall’altro, di evitare la presenza sul mercato di editori impuri. Ad oltre venti anni di distanza si deve rilevare che sicuramente il primo obiettivo è stato raggiunto: le maggiori imprese editrici di quotidiani e di periodici sono da tempo quotate in borsa ed hanno assunto dimensioni tali da consentire la competizione sul mercato globale. Riguardo al secondo obiettivo le mutate condizioni del mercato editoriale – in particolare a seguito dell’introduzione delle nuove tecnologie – hanno determinato una sostanziale inefficacia della normativa vigente. Infatti, il numero delle testate giornalistiche e delle imprese editoriali nell’ultimo ventennio è sicuramente aumentato[15] ed i limiti imposti dalla normativa vigente – sicuramente diversi nello scenario di venti anni fa – rappresentano oramai solo dei paletti ad una crescita dell’intero comparto. La necessità di supportare le fasi di start-up delle nuove iniziative editoriali e di coprire le eventuali perdite generate nei cicli negativi richiedono finanza propria; risorse, spesso significative, che non possono che generare innovazione e beneficio all’intero settore; è pacifico che tale processo andrebbe favorito, consentendo alle società[16] di partecipare direttamente al capitale delle imprese editrici, rinunciando a chiedere inutili sforzi personali all’effettivo editore che per eludere la disciplina attuale è costretto troppo spesso a complesse operazioni di interposizioni fittizie. L’attuale impianto normativo sembra obsoleto e atto in via sostanziale a frenare lo sviluppo ed a favorire l’elusione della normativa vigente. Nell’ottica di una riforma si dovrebbe porre maggiore attenzione alla trasparenza ed al controllo[17] effettivo delle società editoriali da parte di altri soggetti con interessi diversi; si potrebbe richiedere per esempio, una relazione annuale ad una società di revisione iscritta alla Consob sulla eventuale esistenza di controlli con esplicazione delle modalità di controllo, oppure sterilizzare gli effetti fiscali di perdite su partecipazioni per imprese con oggetto sociale diverso.

3. La convergenza, le norme sulla concentrazione ed il pluralismo.

I progressi nella tecnologia di diffusione dell’informazione hanno determinato il fenomeno della convergenza tra i diversi mezzi di comunicazione. La sempre maggiore penetrazione di Internet, la diffusione delle parabole, l’introduzione di nuove tecnologie di trasmissione dati, rappresentano lo scenario di fondo sui cui l’intera industria della comunicazione va immaginata nel prossimo futuro.

Se le imprese seguono le innovazioni tecnologiche con prodotti e servizi in grado di sfruttare le opportunità del mercato, il legislatore registra gravi ritardi nell’adeguare l’impianto normativo alle esigenze dei mercati[18].

E’ significativo segnalare che la legge n. 416/81, proprio nella disciplina antitrust, si qualificò per la sua capacità innovativa. Infatti, la stessa legge introdusse nell’ordinamento italiano la prima figura di autorità di controllo e di garanzia dei meccanismi concorrenziali nello stesso[19] ed una prima disciplina compiuta in materia di concentrazione ed abuso di posizione dominante.

In particolare, l’art. 4 della legge n. 416/81[20] garantiva il pluralismo editoriale, ponendo vincoli alla costituzione di posizioni dominanti sul mercato; ed il successivo art. 8 della medesima legge introduceva la figura del Garante dell’attuazione della stessa [21]. La legge era rivolta, in un momento di crisi dell’intero settore e della predisposizione di strumenti di sostegno dello stesso, ad evitare che dalle operazioni di ristrutturazione delle aziende, e dalle probabili fusioni ed acquisizioni che le medesime ristrutturazioni avrebbero comportato, si venissero a formare posizioni dominati sul mercato[22] dell’informazione. Non vi è dubbio che la disciplina adottata ha rappresentato una forte innovazione per la legislazione italiana, essendo il presupposto storico della legge n. 287 del 10 ottobre 1990, che ha introdotto l’Autorità Garante della concorrenza e del mercato. Se, come detto, nel settore dell’editoria e dell’informazione al principio degli anni ’80 era stata introdotta una norma idonea ad individuare un sistema regolamentare a tutela del funzionamento del mercato, nel settore dell’emittenza radiotelevisiva mancava, a quel tempo, un testo legislativo che, seppur in via residuale, disciplinasse lo stesso. La struttura dei costi e dei ricavi delle imprese che operano nel settore dell’informazione[23] ha determinato, ad esempio, la nascita di una posizione di assoluta predominanza rispetto alle altre imprese della Finivest che, attraverso le frequenze, l’ottima copertura del segnale su tutto il territorio, il magazzino dei programmi e dei film e la costruzione di una grande rete di venditori di pubblicità, godeva di una struttura imprenditoriale ed organizzativa tale da porsi in condizioni di monopolio di fatto nell’emittenza televisiva privata.

La legge di regolamentazione del settore radiotelevisivo, n. 223 del 6 agosto 1990[24], ha di fatto preso atto dell’assetto esistente alla data di emanazione della stessa e, partendo dal medesimo assetto come presupposto, ha introdotto anche nel sistema radiotelevisivo un sistema di norme poste a presidio di un mercato concorrenziale[25]. Uno dei principali snodi della normativa è stato quello, nella sostanza, di limitare la possibilità di essere titolari di concessioni radiotelevisive nazionali per le imprese editrici di quotidiani, qualora le stesse superassero una serie di parametri in termini di tirature[26]. La successiva legge n. 249/97, scritta nella prospettiva di convergenza dei vari mezzi di comunicazione, ha introdotto nuovi parametri in materia di concentrazione ma non ha avuta la capacità di fornire un quadro prospettico con cui stimolare la multimedialità in senso reale.

Per una società titolare di una concessione radiotelevisiva è possibile editare un quotidiano, anche in via telematica; invece, la titolarità di una concessione radiotelevisiva per un gruppo editoriale di significativa importanza sarebbe di fatto impossibile[27].

La convergenza richiede che venga definito, con la massima urgenza, un quadro regolamentare chiaro che, da un lato, consenta e favorisca le strategie di condivisione dell’informazione su diversi mezzi; e, dall’altro, attribuisca alle Autorità di controllo la possibilità effettiva di sanzionare e rimuovere tutte le situazioni in violazione dei principi stabiliti[28].

Un altro fattore da tenere in debita considerazione è la riforma dell’art. 117 della Costituzione che attribuisce alle Regioni autonomia legislativa, anche concorrente con quella statale, in materia di informazione e di comunicazione[29]. La rilettura dell’intero sistema di controllo dell’informazione in chiave federalistica diventa quindi un’esigenza; ed anche la revisione della normativa a garanzia del pluralismo dovrebbe assumere una valenza locale, lasciando all’Autorità nazionale di tutela della concorrenza la funzione di controllo della dinamica industriale. D’altro canto i lander tedeschi da anni hanno piena autonomia nella legislazione in materia di informazione, con autorità di controllo locali ed all’Antitrust federale è rimessa la competenza in materia di concorrenza di matrice industriale. Da tale angolo visuale, si risolverebbero i problemi di distonia attualmente rilevabili tra Autorità per il mercato e la concorrenza e l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni che, secondo quanto detto, avrebbe esaurito la sua funzione.

4. Le misure di sostegno

Uno dei punti di maggiore disorganicità della legislazione vigente in materia di editoria è l’impianto di sostegno al settore.

Ripercorrendo, con estrema sinteticità, la recente storia delle misure di sostegno in materia di editoria occorre partire dalla legge n. 416/81. Come precedentemente detto, la legge interveniva in un momento di grande crisi dell’editoria ed in una fase in cui l’introduzione di nuovi sistemi tipografici determinava notevoli fabbisogni in termini di investimento e di riconversione delle risorse umane.

Con un sistema articolato, la legge n. 416/81, in primis, concedeva contributi diretti ed agevolazioni tariffarie che incidevano direttamente sui conti economici delle imprese con contributi diretti ed agevolazioni tariffarie; poi, interveniva sulla struttura finanziaria delle stesse, attraverso mutui agevolati volti a favorire gli investimenti ed a consolidare le passività bancarie; e infine, stimolava la riconversione del personale attraverso piani di mobilità e prepensionamento.

Con il passare degli anni l’impianto della legge rimaneva, nella sostanza immutato[30], ma una serie innumerevole di modifiche parziali ha reso l’attuale sistema inadeguato rispetto alle esigenze del settore.

Infatti, la struttura dei costi e le economie di scopo che caratterizzano la gestione delle imprese editrici penalizza le realtà di dimensioni minori. In tale prospettiva, è evidente che il mercato tende ad escludere le stesse: ipotizzare un intervento pubblico di garanzia del pluralismo non può prescindere da un sistema di interventi diretti a sostegno delle imprese più piccole con i conseguenti effetti distorsivi sul mercato.

L’attuale sistema di contributi si muove su una triplice direzione: a) contributi in conto esercizio a favore di cooperative giornalistiche, imprese editrici di giornali italiani all’estero e di giornali di minoranze linguistiche ed infine imprese editrici di giornali organi di forze politiche[31]; b) agevolazioni tariffarie volte a ridurre i costi telefonici e di spedizione postale; c) contributi in conto interesse ed in conto capitale a fronte di investimenti[32] strumentali all’attività editoriale.

In linea di massima i contributi descritti alla prima lettera incidono sul totale della spesa per il settore per circa il 25%[33] e sono concessi a circa 300 imprese, con una elevata incidenza del contributo per singola azienda. I contributi individuato alla lettera b) incidono per circa il 50% del totale della spesa pubblica e sono concessi a tutte le imprese in proporzione dei costi sostenuti, e, pertanto, seguono una distribuzione tra le imprese rapportata alle dimensioni delle stesse. I contributi di cui alla lettera c) incidono per la parte residuale e sono, nella pratica, fruibili esclusivamente da parte dei gruppi editoriali di maggiori dimensioni.

Il problema maggiore dell’intero impianto è la disorganicità che lo stesso ha assunto a seguito dei continui interventi parziali sulla normativa di partenza. E’ necessario definire in via preliminare l’esistenza o meno di una volontà politica di tutela del pluralismo, con il relativo impegno in termini di spese o invece, privilegiare il mercato, con le evidenti ripercussioni in termini di concentrazione.

In altre parole, l’intervento pubblico diretto rappresenta l’unica modalità di garanzia di un reale pluralismo nell’informazione; ciò perché il mercato, con le sue regole, determina la creazione di vantaggi competitivi a favore delle imprese maggiori. L’attuale regime di sostegno è in linea con la tutela del pluralismo ed al contempo è orientato a favorire la creazione di poli industriali di rilievo internazionale. Però, la precarietà di tale sistema instabile per l’assenza di reali impegni politici di lungo periodo, rende il mercato estremamente debole, nell’attesa di una riforma troppe volte annunciata.

In tale direzione, una seria riforma dovrebbe contemplare un sostegno alle imprese in fase di start-up e di post-entry, sulla base di reali piani di fattibilità e della congruenza tra obiettivi e mezzi propri impiegati; al contempo, la stampa quotidiana e periodica che si caratterizza per le piccole dimensioni e per la capacità progettuale in termini di organizzazione societaria ed informazione prodotta andrebbe sostenuta, senza ipocrisia, direttamente; allo stesso tempo occorre creare i presupposti perché i gruppi di dimensioni maggiori possano con i migliori mezzi affrontare il mercato internazionale. Al contempo, la riforma deve affrontare le modifiche indotte dalla revisione del titolo V della Costituzione, in virtù del quale le Regioni hanno autonomia legislativa, concorrente rispetto alla legislazione statale, in materia di informazione.

In assenza di una politica pubblica di sostegno il mercato dell’informazione tenderà, per le caratteristiche che gli sono tipiche, ad un oligopolio; e nessuna legislazione anti-trust potrà evitare la creazione ed il consolidamento di una realtà del genere[34].

5. Le testate

Una delle maggiori innovazioni della legge n. 62/01 è stata la nuova definizione di prodotto editoriale.

L’art. 1 della legge n. 62/01 dice: “per prodotto editoriale, ai fini della presente legge, si intende il prodotto realizzato su supporto cartaceo, ivi compreso il libro, o su supporto informatico, destinato alla pubblicazione o, comunque, alla diffusione di informazioni presso il pubblico con ogni mezzo, anche elettronico, o attraverso la radiodiffusione sonora o televisiva, con esclusione dei prodotti discografici e cinematografici. Non costituiscono prodotto editoriale i supporti che riproducano suoni e voci, le opere filmiche ed i prodotti destinati esclusivamente all’informazione aziendale sia ad uso interno sia presso il pubblico. Per “opera filmica” si intende lo spettacolo, con contenuto narrativo o documentaristico, realizzato su supporti di qualsiasi natura, purchè costituente opera dell’ingegno ai sensi della disciplina sul diritto d’autore, destinato originariamente, dal titolare dei diritti di utilizzazione economica, alla programmazione nelle sale cinematografiche ovvero alla diffusione al pubblico attraverso i mezzi audiovisivi. Al prodotto editoriale si applicano le disposizioni di cui all’articolo 2 della legge 8 febbraio 1948, n 47. Il prodotto editoriale diffuso al pubblico con periodicità regolare e contraddistinto da una testata, costituente elemento identificativo del prodotto, è sottoposto, altresì, agli obblighi previsti dall’articolo 5 della medesima legge n. 47 del 1948”.

La necessità di una riforma della disciplina delle testate giornalistiche era forte al momento dell’emanazione della legge n. 62/01; probabilmente, i problemi da risolvere non sono stati rimossi, mentre ne sono sorti di nuovi.

Per un’analisi storica della normativa in materia di testate giornalistiche si deve prendere l’avvio dal secondo comma dell’art. 21 della Costituzione, secondo il quale la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure e dalla legge n. 47/48 che, emanata a soli trentanove giorni dall’entrata in vigore della carta costituzionale, conteneva un sistema estremamente articolato e completo di disciplina delle stampe e delle pubblicazioni periodiche[35].

L’obiettivo della legge era quello di ripristinare la libertà di stampa, delegando ai tribunali un controllo di mera legittimità per la registrazione delle testate ed individuando un sistema di tutele a favore dei terzi per lesioni di diritti soggettivi mediante l’utilizzo illegittimo della libertà di stampa.

La legge n. 223/90 ha esteso gli obblighi previsti dagli artt. 5 e 6 della legge n. 47/48 ai telegiornali ed ai giornali radio. L’avvento di Internet e dei siti di informazione, già dai primi anni ’90, aveva posto il problema dell’ammissibilità della registrazione delle testate telematiche. Nonostante un notevole contrasto nella giurisprudenza, già dal 1995, era prassi diffusa la registrazione delle testate telematiche presso le competenti cancellerie[36].

La legge n. 62/01, pur definendo, con chiarezza il concetto di prodotto editoriale, ha posto un grande problema applicativo e potenzialmente lesivo del diritto di comunicazione. Infatti, dalla lettera della norma appare chiaro che sono soggetti all’obbligo di registrazione tutti i siti con dominio it, o comunque, con server ospitante localizzato in Italia[37]. In tale direzione, viene violata la libertà di stampa prevista dalla costituzione, il titolare di un sito deve individuare un direttore responsabile, che deve essere un giornalista con relativo compenso. A seguito dell’emanazione della legge, l’obbligo della registrazione di tutti i siti[38] è stato fortemente sollecitato dagli ordini dei giornalisti; al contempo, i titolari dei siti segnalavano l’assoluta incongruenza di una tale interpretazione con il concetto di libertà che è sottesa ad Internet.

La lettera a, del comma 1 dell’art. 31 della legge comunitaria 2002 ha previsto[39] quanto segue: “deve essere reso esplicito che l’obbligo di registrazione della testata editoriale telematica si applica esclusivamente alle attività per le quali i prestatori del servizio intendano avvalersi delle provvidenze previste dalla legge 7 marzo 2001, n. 62, o che, comunque, ne facciano specifica richiesta”. La necessità di un nuovo intervento normativo ad appena un anno dall’emanazione della legge di riforma, generato dall’inapplicabilità della nuova disciplina, manifesta le lacune della legge n. 62/01.

Se l’unico aspetto della disciplina delle testate affrontato dalla legge di riforma è stato quello dell’estensione della stessa alle pubblicazioni telematiche vi erano e vi sono diversi punti che necessitano di un intervento legislativo volto a modernizzare il sistema ed a dare certezze giuridiche all’intero impianto normativo.

In primo luogo, le testate giornalistiche rappresentano il nome del prodotto editoriale; e sotto questo aspetto sono da considerare beni immateriali oggetto di diritti reali, anche di rilevante importanza economica. Appare chiara l’analogia con la disciplina in tema di marchi, codificata dagli artt. 2549 e ss. cod. civ. e novellata dal D.L. n. 480/92[40]; e le analogie tra le due discipline, relazionate alle norme che regolano l’esercizio del diritto e le relative fattispecie accessorie, sono ancora maggiori. Difatti, come i requisiti del marchio sono la novità, la liceità, la funzione distintiva, la determinabilità dello stesso e del settore merceologico nel quale si prevede la sua utilizzazione economica, così per la testata i requisiti sono la novità del nome e l’individuazione, al momento della registrazione, di alcuni elementi essenziali quali il direttore responsabile, la sede della redazione, il contenuto informativo e la periodicità. Di più: il diritto sul marchio, come quello sulla testata, si estingue per decadenza; e quest’ultima deriva, in ambedue le fattispecie, dal mancato esercizio del diritto d’uso. Infatti, come per la testata la mancata pubblicazione per un anno comporta la decadenza dalla registrazione, così per il marchio il mancato uso protratto per cinque anni determina la decadenza del diritto sullo stesso.

Le evidenti analogie tra le due discipline determinano la necessità di attribuire alla normativa in materia di testate la capacità di tutelare i diritti patrimoniali che si creano sui beni-testate a seguito dell’esercizio dell’attività editoriale. I principi ispiratori della legge n. 47/48 devono oggi essere contemperati con le esigenze connessa alla tutela patrimoniale del bene marchio-testata. A titolo esemplificativo, dovrebbe essere disciplinata l’ipotesi della cessione della testata disgiuntamente dal relativo ramo di azienda, fattispecie disciplinata per i marchi e rimessa, invece, per le testate, nell’ipotesi di contenzioso, all’interpretazione della magistratura.

Inoltre, sarebbe auspicabile, proprio per tutelare il valore del bene testata, rimuovere le disomogeneità tra i vari Tribunali in materia di registrazione e variazione delle testate[41].

Un ulteriore problema è quello dell’individuazione di un giornalista per la firma del giornale, anche telematico. La previsione della legge n. 47/48 era rivolta a tutelare i terzi e lo stato contro eventuali abusi della libertà di stampa, attraverso la delega ad un giornalista del controllo del giornale. Le nuove tecnologie e la conseguente possibilità di produrre informazione senza grandi impieghi di risorse ed il gran numero dei giornalisti italiani hanno fatto perdere alla previsione della legge del 1948 ogni senso compiuto[42].

Il soggetto colpito dalla diffamazione o dall’ingiuria cercherà il ristoro del danno subito in un congruo risarcimento patrimoniale che non potrà che essere garantito dalla solvibilità solidale dell’editore, del direttore responsabile e dell’estensore dell’articolo; e nessuna tutela patrimoniale gli potrà essere garantita dal fatto che il direttore sia o meno un giornalista[43]. E’ auspicabile una revisione dell’attuale impianto che parta dalla verifica empirica delle distorsioni che l’attuale sistema risarcitorio genera sull’industria editoriale[44] ed addivenga ad un sistema moderno che tuteli attraverso reali strumenti di garanzia patrimoniale[45] i terzi, ed al contempo ripristini un sistema di ragionevolezza nella quantificazione economica dei danni per diffamazione, prevedendo al contempo un ampliamento dei mezzi di tutela morale quali le rettifiche ed il diritto di replica.

CONCLUSIONI

In sintesi la legge n. 416/81 ha rappresentato per la prima volta in Italia un’organica disciplina di tutta la materia, i cui punti fiduciali sono rappresentati da: a) la definizione di un sistema di norme speciali che individua lo statuto dell’impresa editrice; b) una compiuta regolamentazione antitrust, con l’istituzione di una autorità di controllo; c) la creazione di un sistema di sostegno ispirato alla tutela del pluralismo.

Non vi è dubbio alcuno che con il trascorrere del tempo per effetto dei profondi cambiamenti del mercato, della stessa cultura dell’informazione e dell’evoluzione complessiva del sistema normativo, la legge n. 416/81 è stata oggetto di una serie di aggiustamenti che, alla lunga, ne hanno modificato la fisionomia[46]. Dopo venti anni, sarebbe stato opportuno ed auspicabile l’emanazione di un provvedimento organico in grado di investire ex novo l’intera materia, tenuto conto di come il settore si era venuto modificando negli ultimi anni. Il legislatore del 2001, ha, ad avviso di chi scrive, mancato l’obiettivo e non è riuscito a varare una regolamentazione organica della materia su basi diverse. In realtà, lo stesso si è limitato ad intervenire nel corpo della legge n. 416/81 con una serie di modifiche che sono più il frutto dei risultati raggiunti con la cospicua legislazione succeduta alla legge n. 416/81 – di carattere contingente e parziale – che il risultato di una approfondita ricognizione dei problemi sia nazionali che comunitari.

L’auspicio è che in tempi ragionevoli il legislatore decida di dotare l’industria dell’informazione italiana di uno strumento giuridico idoneo a garantire il pluralismo ed una crescita equilibrata dell’intero settore.

[1] Detta previsione veniva poi estesa dal successivo articolo 11 della medesima legge anche alle imprese editrici di periodici con alle proprie dipendenze, da almeno un anno, un minimo di cinque giornalisti ed alle agenzie di stampa a diffusione nazionale collegate con almeno quindici quotidiani in cinque regioni e con alle proprie dipendenze almeno dieci giornalisti professionisti a tempo pieno e più di quindici poligrafici ed oltre dodici ore di trasmissione al giorno, nonché alle agenzie di stampa che avessero alle proprie dipendenze almeno tre redattori a tempo pieno ed esclusivo a norma del contratto nazionale di lavoro, avessero contratto abbonamenti regolarmente contabilizzati con almeno quindici quotidiani, avessero registrato la testata presso la competente cancelleria del Tribunale con la qualifica “agenzia di informazioni per la stampa” da almeno cinque anni e pubblicato mille notiziari con cinquemila notizie o che avessero registrato come sopra la testata presso il Tribunale competente da almeno un anno ed avessero emesso almeno duecentocinquanta notiziari recanti non meno di cinquemila notizie.

2 Art. 2, comma 1 della legge 7 marzo 2001, n. 62.

[3] Legge rubricata “Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato” e più nota come legge Mammì.

[4] F. Di Sabato, Manuale delle società, 1999, Utet, pg. 151.

[5] Il comma 2 dell’art. 21 della Costituzione prevede che: “la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”.

[6] L’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, istituita dalla legge n. 249 del 31 luglio 1997, organo collegiale di controllo del settore ha sostituito, con estensione delle funzioni, il Garante per la Radiodiffusione e per l’Editoria, organo monocratico, istituito con la legge n. 223 del 6 agosto 1990, che a sua volta ha sostituito il Garante per l’editoria, istituito con la legge n. 416 del 5 agosto 1981.

[7] Sono inoltre soggette all’obbligo di iscrizione al medesimo registro: i soggetti destinatari di concessione ovvero di autorizzazione in base alla vigente normativa da parte dell’Autorità o delle amministrazioni competenti; le imprese concessionarie di pubblicità da trasmettere mediante impianti radiofonici o televisivi o da diffondere su giornali quotidiani o periodici; le imprese di produzione e distribuzione dei programmi radiofonici o televisivi; le agenzie di stampa di carattere nazionale; le imprese fornitrici di servizi telematici e di telecomunicazioni, ivi compresa l’editoria elettronica e digitale.

[8] Ai sensi del secondo comma dello stesso articolo, le società in accomandita semplice devono essere in ogni caso costituite solo da persone fisiche.

[9] Ai sensi del comma 9 dell’art. 1 della legge 416/81: “i partiti politici rappresentati in almeno un ramo del parlamento o le associazioni sindacali rappresentate nel Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro possono intestare fiduciariamente, con deliberazione assunta secondo i rispettivi statuti, le azioni o le quote di società editrici di giornali quotidiani o periodici e di società intestatarie di azioni o quote di società editrici di giornali quotidiani o periodici.”

[10] La parola possono è stata introdotto dal primo comma, lettera b dell’art. 2 della legge n. 62 del 7 marzo 2001, in sostituzione della precedente parola devono che, a mio avviso forniva un miglior senso alla disposizione legislativa.

[11] Il concetto di controllo è definito ai sensi dell’art. 2359 del cod. civ. e dell’ottavo comma dell’art. 1 della legge n. 416/81 che prevede una posizione dominante laddove rapporti di carattere organizzativo o finanziario consentano: a) la comunicazione degli utili o delle perdite; ovvero b) il coordinamento della gestione dell’impresa editrice con quella di altre imprese ai fini del perseguimento di uno scopo comune o ai fini di limitare la concorrenza tra le imprese; ovvero c) una distribuzione degli utili o delle perdite diversa, quanto ai soggetti o alla misura, da quella che sarebbe avvenuta in assenza dei rapporti stessi; ovvero d) l’attribuzione di poteri maggiori rispetto a quelli derivanti dal numero delle azioni o delle quote possedute; ovvero e) l’attribuzione a soggetti diversi da quelli legittimati in base all’assetto proprietario di poteri nella scelta degli amministratori o dei dirigenti delle imprese editrici nonché dei direttori delle imprese editrici.

[12] Art. 1, comma 6 della legge 416 del 5 agosto 1981.

[13] L’informazione di matrice anglosassone ha, di contro, sempre visto nell’iniziativa privata l’origine delle maggiori iniziative editoriali, educandosi con il tempo ad un sistema assolutamente diverso di informazione premiato dai risultati che i giornali ottengono in quei paesi in termine di indici di lettura.

[14] Generata in particolare dai cambiamenti tecnologici

[15] Fondamentale è stata la riscoperta a partire dall’inizio degli anni novanta dell’editoria locale.

[16] E’ innegabile che richiedere un impegno diretto all’imprenditore è cosa diversa dal consentire allo stesso di intervenire attraverso società controllate.

[17] Così come definito dall’art. 1, comma 8, della legge n. 416/81.

[18] E’ evidente che i continui mutamenti indotti dalle tecnologie dovrebbero indurre il legislatore ad utilizzare un sistema giusnaturalistico di disciplina, con un quadro regolamentare estremamente semplice ed efficace con una delega alle Autorità di settore a controllare l’esatta osservanza delle regole di principi dettati.

[19] La Consob, istituita con legge n. 16 del 7 giugno 1974, deve garantire fondamentalmente l’investitore ed il mercato di capitali piuttosto che la concorrenza.

[20] L’art. 4 della legge n. 416/81 prevede testualmente: “Gli atti di cessione di testate nonché di trasferimento fra vivi di azioni, partecipazioni o quote di proprietà di aziende editrici di giornali quotidiani e i contratti di affitto o affidamento in gestione delle testate sono nulli ove per effetto di trasferimento o dei contratti di affitto o affidamento in gestione l’avente causa venga ad assumere una posizione dominante nel mercato editoriale. Si considera dominante la posizione di una impresa allorquando, per effetto di un trasferimento di azioni, partecipazioni o quote di proprietà, di cessione, di affitto o di affidamento in gestione della testata, i giornali quotidiani editi dalla medesima, o da imprese controllate o che la controllano o ad essa collegate ai sensi dell’art. 2359 c.c., abbiano tirato nel precedente anno solare oltre il venti per cento delle copie complessivamente tirate dai giornali quotidiani in Italia. Si considera altresì dominante, ai sensi e per gli effetti del presente articolo, la posizione dell’impresa che viene in possesso o che si trova a controllare, per effetto di trasferimento di azioni, partecipazioni o quote di proprietà, ovvero di affitto o affidamento in gestione della testata, un numero di testate: a) superiore al cinquanta per cento di quelle edite nell’anno solare precedente e aventi luogo di pubblicazione, determinato ai sensi dell’art. 2 della L. 8 febbraio 1948, n. 47, nell’ambito di una stessa regione e sempre che vi sia più di una testata; b) che abbiano tirato nell’anno solare precedente oltre il cinquanta per cento delle copie complessivamente tirate dai giornali quotidiani aventi luogo di pubblicazione nella medesima area interregionale. Ai fini del presente comma si intendono per aree interregionali quella del nord-est, comprendente Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia ed Emilia-Romagna; quella del centro, comprendente Toscana, Marche, Umbria, Lazio e Abruzzi; quella del sud, comprendente le rimanenti regioni. L’impresa editrice che, per espansione delle vendite o per nuove iniziative, giunge a controllare quotidiani la cui tiratura annua supera un terzo delle copie complessivamente tirate dai giornali quotidiani in Italia perde per l’anno solare successivo a quello in cui abbia superato tale limite, il diritto a tutte le provvidenze e agevolazioni di cui al titolo II della presente legge. Il Garante di cui all’art. 8, quando riscontra che si verificano le condizioni di cui al 1° comma, deve presentare domanda al tribunale competente, ai fini dell’eventuale dichiarazione di nullità degli atti di cui al medesimo 1° comma. L’azione di nullità di cui al comma precedente può essere altresì proposta da qualsiasi persona fisica o giuridica. Su richiesta motivata dal Garante il tribunale adotta entro quindici giorni i provvedimenti di urgenza che appaiono, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare in via provvisoria gli effetti della eventuale dichiarazione di nullità. E’ competente il tribunale del luogo presso il quale è stata registrata la testata ceduta o della quale si sia acquisito il controllo. In caso di più giornali è competente il tribunale del luogo ove è registrato il giornale con la più alta tiratura. La suddetta competenza territoriale è inderogabile. I giudizi relativi allo stesso oggetto debbono essere riuniti. Il tribunale dispone la pubblicazione, nelle forme di cui all’art.2, dell’avvenuta proposizione dell’azione di cui al 5° comma del presente articolo.

[21] Che, come già detto, fu prima trasformato nel Garante per l’editoria, successivamente nel Garante per la radiotelevisione e per l’editoria e, con la legge n. 249/97 definitivamente assorbito dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni.

[22] La dottrina economica insegna che le posizioni di controllo del mercato si generano in via prevalente nella fase di start-up o di crisi dei diversi settori.

[23] Le imprese editoriali e radiotelevisive sono caratterizzate da costi estremamente rigidi, forti economie di scala ed economie di scopo. Sull’argomento vedi: C. Mazzoni e V. Ghionni, “La struttura economico-patrimnoniale delle imprese editoriali: il contesto attuale e le possibilità future”, in “I sistemi locali nell’editoria giornalistica: il caso della Campania!, (a cura di Clelia Mazzoni ed Andrea Rea), ESI, 2001.

[24] Rubricata “Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato” e più nota come legge Mammì.

[25] E’ evidente che avere come presupposto una situazione di monopolio o, al più di duopolio, tra Fininvest e Rai, inficia ogni efficacia della legge. D’altronde, il ridimensionamento della Fininvest che era diventata un’impresa di rilievo internazionale, in quel periodo, avrebbe ingiustamente danneggiato, l’unico soggetto capace di portare innovazione imprenditoriale nel settore ed a creare valore all’interno dello stesso.

[26] L’art. 15 della legge n. 223/90 prevede: “Al fine di evitare posizioni dominanti nell’ambito dei mezzi di comunicazione di massa è fatto divieto di essere titolare: di concessione per radiodiffusione televisiva in ambito nazionale, qualora si abbia il controllo di imprese editrici di quotidiani la cui tiratura annua abbia superato nell’anno solare precedente il 16% della tiratura complessiva dei giornali quotidiani in Italia; di più di una concessione per radiodiffusione televisiva in ambito nazionale, qualora di abbia il controllo di imprese editrici di quotidiani la cui tiratura annua superi l’8% della tiratura complessiva dei giornali in Italia; di più di due concessioni per radiodiffusione televisiva in ambito nazionale, qualora si abbia il controllo di imprese editrici di quotidiani la cui tiratura complessiva sia inferiore a quella prevista dalla lett. B). Gli atti di cessione, i contratti di affitto o affidamento in gestione di imprese operanti nel settore delle comunicazioni di massa, nonché il trasferimento tra vivi di azioni, partecipazioni o quote di società operanti nel medesimo settore sono nulli ove, per loro effetto, uno stesso soggetto, anche attraverso soggetti controllati o collegati, realizzi più del 20% delle risorse complessive del settore delle comunicazioni di massa o più del 25% delle predette risorse nel caso in cui il medesimo soggetto consegua entrate nel settore della comunicazione di massa per almeno due terzi dei propri introiti complessivi. Ai fini dell’applicazione del comma 2, per risorse complessive del settore della comunicazione di massa si intendono i ricavi derivanti dalla vendita di quotidiani e periodici, da vendite o utilizzazione di prodotti audiovisivi, da abbonamenti a giornali, periodici o emittenti radiotelevisive, da pubblicità, da canone e altri contributi pubblici a carattere continuativo. Le concessioni in ambito nazionale riguardanti sia la radiodiffusione televisiva che sonora, rilasciate complessivamente ad un medesimo soggetto, a soggetti controllati da o collegati a soggetti i quali a loro volta controllino altri titolari di concessioni, non possono superare il 25% del numero di reti nazionali previste dal piano di assegnazione e comunque il numero di tre. Ai fini dell’applicazione del presente articolo, alla titolarità della concessione è equiparato il controllo o collegamento, ai sensi dell’art.37 della presente legge, con società titolati di concessione, ovvero, per le persone fisiche o giuridiche non societarie, la titolarità di azioni o di quote nelle misure indicate dall’art.2359 c.c. o l’esistenza dei vincoli contrattuali ivi previsti; inoltre ogni autorizzazione ad esercitare impianti ripetitori di programmi radiofonici o televisivi esteri di cui agli artt. 38 e ss. Dalla L.14 aprile 1975, n. 103, e successive modificazioni, equivale a titolarità di una concessione per la radiodiffusione sonora o televisiva in ambito nazionale. Le imprese concessionarie di pubblicità, di produzione o di distribuzione di programmi, che operano nel settore radiotelevisivo, devono presentare al Garante, entro il 31 luglio di ogni anno, i propri bilanci, corredati da un documento da cui risultino analiticamente gli elementi contabili relativi ai contratti stipulati con i concessionari privati, con la concessionaria pubblica e con i titolari di autorizzazione ai sensi dell’art.38 della L. 14 aprile 1975, n.103. Tale documento è compilato sulla base di modelli, approvati con le modalità previste dal comma 1 dell’art.14, e deve contenere l’indicazione dei soggetti con i quali sono stati stipulati i contratti, le eventuali clausole di esclusiva, gli eventuali minimi garantiti pattuiti, i pagamenti eseguiti in favore di ogni soggetto ed ogni altro elemento ritenuto necessario ai fini dell’accertamento dell’osservanza delle disposizioni della presente legge. Qualora i concessionari privati, la concessionaria pubblica o i titolari di autorizzazione ai sensi dell’art.38 della L. 14 aprile 1975, n.103, si trovino in situazioni di controllo o di collegamento nei confronti di imprese concessionarie di pubblicità, queste ultime non possono raccogliere pubblicità per più di tre reti televisive nazionali, o due reti nazionali e tre reti locali o una rete nazionale e sei locali ivi comprese quelle di cui sono titolari i soggetti controllanti o collegati; eventuali ulteriori contratti stipulati dalle imprese concessionarie di pubblicità di cui al presente comma devono avere per oggetto pubblicità da diffondere con mezzi diversi da quello radiofonico e televisivo e comunque in misura non superiore al 2% degli investimenti pubblicitari complessivi dell’anno precedente. Le stesse disposizioni si applicano alle società concessionarie di pubblicità che abbiano il controllo di imprese titolari di concessione per la radiodiffusione sonoro o televisiva e che siano ad esse collegate. I contratti stipulati in difformità delle norme di cui al presente comma sono nulli”.

[27] Problema enorme se si pensa che una possibile privatizzazione della Rai determinerebbe, per assurdo, le imprese editoriali dalla platea dei potenziali acquirenti di azioni delle società costituite.

[28] La sostanziale inapplicabilità dell’attuale normativa è dimostrata, da un lato, dai continue conflitti tra le posizioni delle due Autorità (v. a titolo esemplificativo caso Telecom-TMC) e, dall’altro, dall’inapplicazione di norme già esistenti (tra tutte vedi la lettera a del comma 6 dell’art. 2 della legge n. 249/97) e dal continuo succedersi di proroghe oramai ingiustificate.

[29] Sull’argomento vedi A. Di Amato, “……………”, in “Diritto ed economia dei mezzi di comunicazione”, n. 1/2002, Liguori e sempre, A. Di Amato, in questo numero della rivista.

[30] L’unica modifica di rilievo è la sostituzione del contributo alla carta, concesso a tutte le imprese editrici, con i contributi in conto esercizio concessi solo a determinate tipi di imprese.

[31] Il sistema alquanto articolato è molto complesso; in questa sede si deve ricorrere, per motivi di sintesi, ad una semplice indicazione dei criteri base.

[32] Sistema completamente riformato dalla legge n. 62/01.

[33] Il costo complessivo della spesa per sostenere il sistema dell’informazione è di circa 500 mni di euro.

[34] Già si è detto che le fasi di concentrazione si verificano quasi sempre in periodi di crisi dei settori ed in questi frangenti gli interventi devono essere rivolti a salvaguardare la credibilità del sistema generale ed i livelli occupazionali; a titolo esemplificativo, il sistema bancario italiano ha vissuto negli ultimi anni un periodo di grandi ristrutturazioni, fusioni ed acquisizioni da parte degli istituti maggiori che ha determinato un mercato caratterizzato da forte concentrazioni ed ha visto le aree meno sviluppate del Paese private di un sistema locale di credito.

[35] Per un approfondimento sulla disciplina delle testate vedi: V. Ghionni, “Le testate giornalistiche” in “Appunti di diritto dei mezzi di comunicazione”, a cura di A. Di Amato, ESI, 2001.

[36] Occorre segnalare che l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, istituita già nel 1997, fino all’introduzione del Registro degli operatori della Comunicazioni, avvenuta nel 2001 ha sempre rifiutato l’iscrizione al registro nazionale della stampa delle impresse editrici di testate telematiche, palesando le difficoltà che la stessa ha nel porsi come soggetto propulsore di un sistema regolamentare volto a recepire con prontezza le novità del mercato.

[37] E per assurdo con diffusione in Italia e, pertanto, la norma sarebbe potenzialmente applicabile a tutti i siti del mondo.

[38] Per ovvi motivi è pressoché impossibile per un sito non avere un minimo di informazione.

[39] Assumendo la funzione di interpretazione autentica.

[40] In tale direzione, tra l’altro, andava una fondamentale decisione della Commissione Ricorsi del lontano 19.01.51 che escludeva la brevettabilità di una testata in quanto oggetto di analoga tutela giuridica garantita dalla legge n. 47/48 e dall’art. 100 della legge n. 633/41.

[41] In realtà l’art. 16 della legge n. 62/01 ha previsto che: “I soggetti tenuti all’iscrizione al registro degli operatori della comunicazione sono esentati dagli obblighi previsti dall’articolo 5 della legge 8 febbraio 1948, n. 47. L’iscrizione è condizione per l’inizio delle pubblicazioni”. La norma in oggetto avrebbe potenzialmente la capacità di centralizzare la registrazione delle testata presso l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni. In realtà il Registro degli operatori della Comunicazioni ha natura analoga quella del Registro delle imprese e, pertanto, riguarda gli eventi inerenti le società editrici e non i prodotti delle stesse; mentre, come detto, il punto cruciale è la gestione delle testate intese come beni immateriali oggetto di diritti reali. Inoltre, il pessimo funzionamento del registro degli operatori della Comunicazione (quest’articolo è stato chiuso il 09 settembre del 2002) rischia, per effetto del secondo comma dell’art. 16 della legge n. 62/01, con il condizionamento delle pubblicazioni all’iscrizione al Registro, di determinare la violazione del principio costituzionale di libertà di stampa.

[42] Se non quello di prevedere, in sostanza, una fee alla classe dei giornalisti a scapito della reale libertà di produrre informazione.

[43] Se non una tutela etica: ma i rischi della costruzione di un sistema giuridico sui principi dell’etica sono ben noti ai giuristi ed agli studiosi delle scienze dello Stato.

[44] Le richieste di risarcimento danno per diffamazione editoriale rappresentano una voce di costo elevatissima per la gran parte delle imprese editoriali, determinando spesso la chiusura delle stesse. Inoltre, l’arbitrarietà nella determinazione del danno e l’impossibilità per le imprese minori di addivenire a ragionevoli transazioni, a causa di problemi finanziari, rappresenta un rischio reale per il pluralismo e per la libertà di stampa in assoluto.

[45] A titolo esemplificativo, potrebbe essere prevista la stipula di polizze assicurative.

[46] Tra queste ricordiamo la legge n. 67/97, la legge n. 250/90, la legge n. 650/96 e da ultima la legge n. 62/01.

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