Liquidata con una sentenza giudiziaria l’intesa raggiunta da Google nel 2008 con gli editori americani rappresentati da l’Authors Guild e l’Association of American Publishers. Attraverso quel patto la Multinazionale di Mountain View si impegnava a versare 125 Milioni di dollari per risarcire autori ed editori le cui opere fossero state inserite, a loro insaputa, nell’elenco di quella che avrebbe dovuto essere la più vasta biblioteca digitale presente sulla Rete. L’accordo prevedeva anche l’allestimento di un fondo speciale per quegli scrittori che avessero deciso di far parte del registro e che Google si sarebbe impegnato a pagare ogni qual volta i loro testi fossero stati visionati online, con una ripartizione dei guadagni destinati per un 63% agli editori ed il restante 37% al colosso statunitense. “L’accordo fra Google e gli editori americani non è giusto, adeguato e ragionevole”, queste le inoppugnabili conclusioni del giudice del Tribunale federale di New York su un’intesa che avrebbe permesso alla grande piattaforma di sfruttare i libri, violando il diritto d’autore e arrogandosi un vantaggio sleale nei confronti della concorrenza.
Si tratta di conclusioni che se da un lato ribadiscono l’assoluta superiorità della normativa vigente negli Usa sul copyright, sancita dal Digital Millennium Copyright Act (DMCA), dall’altro sollevano importanti considerazioni. In particolare l’esigenza di trovare una soluzione che tuteli in uguale misura la libertà di espressione, nonché l’equa remunerazione dell’autore di un’opera intellettuale dinanzi ad un utente-consumatore il cui diritto di accesso ai contenuti debba poter essere garantito. Specie là dove le nuove tecnologie (Internet in testa), in qualità di strumento di divulgazione di massa, possano sopperire ad evidenti gap culturali che negli Usa, come anche in Europa, le statistiche registrano a cospicui livelli. D’altronde nelle stesse 50 pagine della motivazione della sentenza pronunciata contro Google, è lo stesso giudice Danny Chin ad ammettere che la creazione di una libreria digitale di tale portata sarebbe stata un’iniziativa a vantaggio di molti, tra cui biblioteche, scuole, ricercatori e popolazioni svantaggiate. Un accordo che avrebbe altresì consentito agli stessi autori ed editori di trovare nuovi lettori e fonti di guadagno alternative oltre che garantire lunga vita e libero accesso a libri rari, antichi o difficilmente reperibili negli Usa come nel resto del mondo. Ed in effetti questa è la “mission”, almeno quella dichiarata dai legali di Google, che si dicono ad ogni modo decisi a continuare su questa strada per far conoscere libri da ogni parte del globo attraverso Google Books e Google e-Books. Un’apertura al compromesso è profilata dallo stesso giudice che lascia ai titolari di copyright la facoltà di decidere se partecipare o meno all’accordo fra Google e gli editori.
Una posizione che non sottovaluta le opportunità offerte dalle nuove tecnologie ma che basa le proprie convinzioni sul difetto sostanziale di un accordo ritenuto non conforme ai principi della tutela del Copyright e della concorrenza.
È una questione che dovrebbe però prefigurare allo stesso tempo la necessità di introdurre un modello di regolazione che contemperi non solo interessi ma anche diritti, come quello di accesso ai contenuti e alla cultura in Rete, nonché la possibilità di aprire nuovi mercati mondiali per gli autori, combattendo al contempo il rischio della pirateria online, ingigantito dalle risorse offerte dal web. Una priorità quella dell’uniformazione della disciplina del diritto d’autore nel contesto della digitalizzazione online, che al momento in Italia costituisce un dibattito ancora aperto e, nello specifico, inaugurato dai lineamenti di provvedimento sui quali l’Agcom ha aperto una consultazione pubblica con la delibera n. 668/10/CONS. La stessa Autorità avrebbe infatti segnalato al Governo e al Parlamento l’opportunità di una revisione complessiva delle norme sul diritto d’autore che risultino inadeguate allo sviluppo tecnologico e giuridico del settore.
Manuela Avino
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