Nessuno è perfetto, neppure l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Tant’è che il regolamento sul diritto d’autore in rete è finito nel mirino della Corte costituzionale, dove ieri sì è tenuta l’udienza in merito a due ordinanze del TAR del Lazio, scaturite dai ricorsi di diversi soggetti (Associazione stampa on line, Federazione media digitali indipendenti, Altroconsumo, Movimenti di difesa del cittadino, con l’appoggio di Articolo 21) contro la decisione dell’Agcom: la delibera n.680 del 12 dicembre 2013, sottoposta a consultazione ed entrata in vigore il 31 marzo del 2014. Il dibattito pubblico fu tutt’altro che una passeggiata, essendosi manifestate contrarietà numerose e autorevoli nel campo giuridico (a partire da Stefano Rodotà) e in quello delle organizzazioni che tutelano la libertà di Internet. Non ci fu verso. Invece di attendere una norma primaria del parlamento, l’Autorità pensò bene di procedere senza se e senza ma. Tuttavia, la corsa contro il tempo si è fermata alla prima curva. Il tribunale amministrativo ha rimesso alla Consulta alcuni aspetti inerenti alla questione e, ora, attendiamo il giudizio del massimo organismo della giustizia. Qualsiasi sarà la decisione, è evidente che quel regolamento merita di essere ripensato. E’ credibile che possa funzionare un articolato già indebolito da dubbi numerosi e persino sottoposto a procedura di verifica? Insomma, il crescendo rossiniano si è fermato alla prima stecca. Meditate gente, meditate, ci ammoniva Renzo Arbore. Appunto.
Del resto, sono state sottolineate le contraddizioni, nonché le vere e proprie aporie del testo: al solito, forte con i deboli e debole con i forti. Ricorda nel suo blog su “il Fatto Quotidiano” uno dei protagonisti della vicenda, Fulvio Sarzana, come su richiesta della Sony, della Warner e della Universal Music sia stato inibito l’accesso ad un sito web, che consente attraverso il peer-to-peer la distribuzione e la condivisione. E lì ci sono milioni di file, per l’appunto, molti dei quali del tutto leciti. Così per diversi altri casi. Tra i paradossi: i libri di Antonio Gramsci (di pubblico dominio dal 2007) non sono più visibili sui portali inibiti dall’Agcom. E chissà quanto ci perdiamo dei saperi digitali, al di là delle chiacchiere sull’innovazione. Non è un caso che l’Italia navighi nei punti bassi delle classifiche del diritto all’informazione. Si tratta di forme di censure, meno visibili ed eclatanti degli “editti bulgari”, ma altrettanto gravi. Un ulteriore paradosso. La presidente della Camera dei deputati Boldrini nei prossimi giorni presenterà in Brasile – alla sessione annuale dell’Internet governance forum – la Dichiarazione dei diritti in internet scritta da un vasto gruppo di lavoro, e obiettivamente figlia di un approccio assai differente. Eppure lo Stato (nel senso forte del termine) dovrebbe essere unitario, come si dice. Insomma, che la tappa presso la Corte diventi un’occasione per un “ravvedimento operoso”. Il dibattito reale, in giro per il villaggio globale, usa una sintassi asimmetrica: condivisione, creative commons, autoregolamentazione fondata sull’etica della responsabilità e del limite sono riferimenti “normali”. Le vecchie lobby ostili non possono prevalere, anche perché lo stesso capitalismo dell’era informazionale le sta mettendo in soffitta. La soglia del compromesso si è alzata e la storia dei media procede rompendo le fragili barriere corporative. Si riprenda il cammino in parlamento, dove la corsa potrebbe ricominciare, dopo una falsa partenza.
Vincenzo Vita
articolo pubblicato da “Il Manifesto” mercoledì 21 ottobre
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