Diffamazione: Travaglio, carcere ci vuole se c’e’ il dolo

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Grido d'allarme della filiera della carta

Io sono il primo non direttore responsabile che parla e quindi parlo a nome di chi si trascina dietro il direttore responsabile, in ambito penale. Oggi ci sono molte cause civile per danni, molte più delle querele. Reato d’opinione – credo che un giornalista se argomenta quello che sta dicendo può arrivare a dare dello stupido a un uomo pubblico, quindi penso sia interesse pubblico valutare le facoltà mentali delle cariche pubbliche, in Italia non è possibile farlo perché si perde la causa o la querela. Il carcere penso sia un falso problema, il carcere è finto nel senso che nessuno sconta la pena, negli ultimi 50anni i giornalisti finiti in carcere sono due o tre. Certamente dobbiamo valutare la sanzione e capire che sia giustificabile attualmente e credo dobbiamo essere molti sinceri. Siamo il paese dei conflitti di interesse, anche degli editori che hanno un interesse al di fuori del mondo dell’editoria e che usano i giornali come clave per favorire i propri interessi. Questo influenza molto il nostro dibattito: come si fa a dissuadere un giornalista che ha avviato una campagna facendo il gioco del suo editore, anche se magari non ne è tanto convinto? Siamo tutti d’accordo che il carcere ci vuole se c’è il dolo, bisognerebbe impiantare la distinzione tra quello che aiuta a separare il reato d’opinione che non dev’essere più reato dall’attribuzione di fatti falsi e infamanti. E tra chi è in buona fede e chi no attraverso lo strumento dell’autorettifica spontanea. Però non obbligateci a pubblicare le rettifiche senza replica, perché a volte le rettifiche sono piene di falsità”.
Lo afferma Marco Travaglio, attualmente vicedirettore de il Fatto Quotidiano.

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