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Diffamazione, privacy, diritto all’oblio, libertà di espressione e gestione dei dati online. “Cercasi” un equilibrio virtuoso

La Corte europea dei diritti fondamentali ha deciso che gli articoli online non vanno rimossi. Anche se giudicati diffamatori. Per il tribunale di Strasburgo basta una nota per “equilibrare” il diritto all’informazione e la reputazione. Per i giudici europei i contenuti dei giornali sono protetti dall’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Anche in Italia per la Cassazione e l’Autorità per la Privacy basta un aggiornamento. E il diritto all’oblio che fine fa? Intanto l’estrema “fluidità” della rete e la gestione dei dati dei “colossi” del web come Google potrebbero trasformare la privacy in un vecchio ricordo.
Ma procediamo con ordine e facciamo chiarezza.
Lo scorso 16 luglio la Corte di Strasburgo ha bocciato il ricorso di due avvocati polacchi. I quali hanno chiesto, invano, la rimozione di alcuni articoli. I quali mettevano in evidenza dei rapporti di affari con dei politici.
Ma i giudici di Strasburgo hanno rigettato l’istanza. Per la Corte la libertà di espressione e il valore storico degli archivi online dei giornali non possono essere minate. Nemmeno se c’è stata una comprovata diffamazione con relativa condanna di un tribunale nazionale. Quindi non è possibile rimuovere degli articoli da un sito Internet di una testata. La loro rimozione, secondo la Corte europea, sarebbe una misura “sproporzionata”. Anche se il tribunale nazionale lo ha già giudicato diffamatorio.
A questo punto sorge un dubbio: quale sarebbe il “giusto mezzo” tra la tutela della reputazione e la libertà di espressione? Come detto in precedenza, per la Corte europea basta una correzione all’articolo incriminato. Una sorta di postilla, una nota, un commento che avverte che quel contenuto è stato giudicato diffamatorio da un tribunale. Ma, in tal modo, si è sicuri di equilibrare il diritto all’informazione e all’espressione con il rispetto della reputazione altrui? Il dubbio rimane. Infatti, stando alla decisione della Corte, la libertà di espressione sembra “scavalcare” il diritto alla privacy. In ogni caso la sentenza avrà comunque un suo peso. Infatti le decisioni della Corte europea, in teoria, dovrebbero essere vincolanti per gli Stati appartenenti alla Convenzione europea per i diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu).
Tuttavia l’articolo 10 della Convenzione lascia spazio all’interpretazione e alla discrezione dei giudici. Certo è che la libertà di espressione è chiaramente salvaguardata. Infatti il primo comma recita che ogni persona ne ha diritto. E “tale diritto [la libertà di espressione, ndr] include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera”. Tuttavia il seconda comma specifica: “L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni previste dalla legge”. Le quali sanzioni “costituiscono misure necessarie” per garantire, tra le altre cose, “la protezione della reputazione o dei diritti altrui”.
Quindi trovare un equilibrio “stabile” tra la libertà di espressione e il rispetto della privacy risulta alquanto arduo.
E la situazione si complica ulteriormente se si pensa anche al diritto all’oblio. Si tratta di un argomento delicato. E a riguardo non mancano pareri discordanti tra tribunali e Cassazione. Inoltre la garanzia all’oblio è diversamente applicata a seconda degli ordinamenti statali.
Tale diritto prevede, per l’interessato, la non diffondibilità di precedenti notizie sul proprio conto. In genere si invoca per precedenti poco lusinghieri, quali condanni, accuse o altri dati personali “sensibili”. Il tutto è derogabile nel caso in cui ci sia un’intersezione con nuovi fatti di cronaca e di interesse pubblico.
La giurisprudenza italiana (e non solo) ha confermato che «è riconosciuto un “diritto all’oblio”, cioè il diritto a non restare indeterminatamente esposti ai danni ulteriori che la reiterata pubblicazione di una notizia può arrecare all’onore e alla reputazione, salvo che, per eventi sopravvenuti, il fatto precedente ritorni di attualità e rinasca un nuovo interesse pubblico all’informazione».
Quindi il diritto all’oblio sembra essere teoricamente riconosciuto. Ma nei fatti le cose si complicano. Un esempio può venire dalla Corte di Cassazione italiana. La quale (prima della recente sentenza della Corte di Strasburgo) si è espressa a favore del diritto di informazione ordinando una aggiornamento costante delle notizie, soprattutto quelle riguardanti la cronaca giudiziaria (sentenza n. 5.525 del 2012).
Anche per i giudici di legittimità italiani la “completezza storica” va salvaguardata. Quindi un articolo, potenzialmente “infamante”, anche se datato, non va eliminato. Ma, se è il caso, va aggiornato, previa richiesta dell’interessato. I giudici di legittimità hanno sottolineato che «va garantito la contestualizzazione e l’aggiornamento delle notizie. In quanto la situazione descritta all’origine può cambiare o mutare completamente».
Ciò significa anche che i titolari dell’organo di informazione avranno un compito arduo. Si tratta dell’obbligo di contestualizzare e aggiornare le notizie. Il tutto tramite una «predisposizione di un sistema idoneo a segnalare la sussistenza di un seguito e quale esso sia stato […], consentendone il rapido ed agevole accesso da parte degli utenti al fine del relativo adeguato approfondimento». In poche parole gli archivi andranno continuante aggiornati.
La sentenza ha riguardato uno dei maggiori quotidiano nazionali: il Corriere della sera. Il caso è relativo ad un arresto del 1993, ai tempi di Tangentopoli. Un assessore di un comune della provincia di Milano fu arrestato per corruzione. Il Corsera ne fece un articolo. Poi l’interessato fu assolto. Ma la notizia del suo arresto rimase ed è ancora reperibile. L’uomo chiese la cancellazione delle sue tracce nell’articolo. Sia il garante della privacy che il tribunale di Milano gli diedero torto. La Cassazione ha invertito la rotta, o almeno in parte. Ma cerchiamo di capire cosa ha stabilito il giudice di legittimità. Innanzitutto non c’entra nulla la diffamazione o l’eventuale lesione alla reputazione in quanto la notizia era vera. Quest’ultima, anche se datata, non va assolutamente cancellata perché riguarda un fatto di pubblica utilità. Il pezzo ha comunque “fotografato” un evento accaduto e non ha senso, sempre secondo la Corte, “nascondere” l’articolo ai motori di ricerca. Tuttavia bisogna che il titolare dell’archivio aggiorni e contestualizzi l’accaduto dandone una “completezza storica”. Il tutto senza alcuna censura. Basta una nota, un link, o una qualche riga di implementazione del testo originario. Spetta poi agli editori decidere quale sistema adottare. Anche l’Autorità per la privacy si è espressa nella stesso modo con due provvedimenti simili: il n. 434 del 20 dicembre del 2012 e il n.31 del 24 gennaio del 2013.
Ma il diritto all’oblio si scontra anche con l’estrema fluidità della rete che non dimentica mai nulla. Ormai le notizie viaggiano indisturbate tramite link su Facebook, Twitter, blog e vengono riprese dagli stessi giornali. Quindi anche la correzione delle notizie presenti nell’archivio storico di un quotidiano non garantisce che tutti gli altri “cloni” della notizia stessa abbiano avuto lo stesso trattamento.
Di conseguenza riuscire nell’intento di rendere gli articoli sempre giovani è una traguardo non da poco. «Dio perdona, la rete no», affermò il Commissario europeo per privacy e trattamento dei dati personali, Viviane Reding. Dello stesso parere è stato Vint Cerf, informatico statunitense, conosciuto come uno dei padri di Internet. «Non potete uscire di casa ed andare alla ricerca di contenuti da rimuovere sui computer della gente solo perché volete che il mondo si dimentichi di qualcosa. Non penso che sia praticabile», profetizzò Cerf. Secondo il quale, al di la delle leggi e della giurisprudenza, il diritto all’oblio non è praticabile.
«Se consentiamo a chiunque di pretendere la rimozione di un contenuto sgradito che lo riguarda, tra 100 anni quando guarderemo a questa epoca attraverso Internet sembreremo tutti bravi e buoni. Le storie di corrotti e delinquenti saranno sparite», afferma Guido Scorza, un noto giurista del web.
L’argomento privacy non è solo legato all’aspetto personale. Ma si sta inserendo sempre di più nell’area commerciale. Infatti quando parliamo di privacy consideriamo una mole di informazioni che hanno un notevole valore economico. In quanto sono una “ispirazione” preziosa per la pubblicità. A questo punto dobbiamo citare i cosiddetti “giganti del web” come Facebook, Twitter e in particolare Google. Il colosso di Mountain View, il motore di ricerca più usato al mondo, ha avuto non pochi problemi relativi all’uso dei dati personali. Le Autorità garanti per la privacy di sei Paesi europei (Italia, Regno Unito, Francia, Germania, Spagna, Paesi Bassi) hanno avviato un’indagine sull’uso che la società fa dei dati degli utenti.
Secondo le Autorità europee Google gestirebbe in modo improprio le informazioni derivanti dall’uso che gli “internauti” fanno del servizi che fanno capo alla società californiana: You Tube, Gmail, Google Maps, oltre alle varie consultazioni sul motore di ricerca. In effetti Google gestisce tutte le informazioni che viaggiano in rete. Ed è la stessa società che decide, in base a precise regole, quali siti devono apparire in prima fila e quali, invece, devono essere relegati al milionesimo posto. Inoltre bisogna precisare che il motore di ricerca di Montain View è il monopolista di fatto in Europa dove supera il 90% della quote di mercato. Ciò significa che nelle banche dati di Google si cela un immenso patrimonio di informazioni.
Google, da parte sua, smentisce ogni tipo di scorrettezza: «Rispettiamo in pieno le leggi europee. Inoltre offriamo servizi semplici ed efficienti agli utenti».
Bisogna dire che in ambito Ue manca ancora una precisa legge quadro che accomuni i regolamenti nazionali. Quindi tale vuoto normativo crea “zone d’ombra” difficilmente interpretabili. Ad ogni modo il dibattito delle Autorità europee per la privacy con Google non è una novità. In precedenza era toccata alle singoli Garanti nazionali interfacciarsi con la società californiana. Ora, invece, si è creata una vera e propria “class action” e sono partiti sei procedimenti istruttori.
Già all’inizio del 2012 a Google fu intimato di correggere la politica di gestione dei dati personali. In quanto violava i requisiti europei per la privacy stabiliti dalla direttiva 95/46/ CE. Allora furono dati a Google quattro mesi di tempo per correggersi. Da quell’avvertimento, però, nulla è cambiato. Ma cosa potrebbe rischiare Google? In caso di condanna le cifre cambiano in base ai regolamenti dei singoli Paesi. Nel Regno Unito si arriva ad una ammenda di circa 750 mila euro. In Francia c’è un limite di 300 mila.
Ma per quale motivo negli ultimi anni si è data tanta importanza alla privacy intesa come identità digitale? La risposta è articolata, ma nello stesso tempo semplice. In poche parole quando “navighiamo” sulla rete lasciamo una seria infinita di informazioni personali: le ricerche che facciamo, i video che guardiamo, le mappe che consultiamo, le persone che contattiamo, ecc. Ciò significa che un’analisi combinata e ragionata, e soprattutto non espressamente dichiarata, dei dati consentirebbe, a chi è in possesso di tali informazioni, di ricostruire delle intere identità digitali. Le quali, al giorno d’oggi, coincidono sempre più con quelle reali. E a cosa servono questi dati? Per quale motivo dovrebbe analizzare le nostre tracce sulle rete? Per due motivi, strettamente collegati: per la pubblicità, ovvero il “motore” economico della rete.

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