Quando la cronaca ha per oggetto immediato il contenuto di un’intervista e non viene messa in dubbio la fedeltà del testo pubblicato alle dichiarazioni rese dall’intervistato, il giornalista non può essere chiamato a rispondere di quanto affermato dall’intervistato, sempreché ricorra l’ulteriore requisito dell’interesse pubblico alla diffusione dell’intervista.
Questi i fatti che hanno originato il provvedimento.
Su di un noto giornale locale venne pubblicata un’intervista rilasciata ad un segretario di un’associazione sindacale in cui si criticava la gestione dei punti vendita di una società.
Condannati in secondo grado al risarcimento danni nei confronti della società, l’autore del pezzo ed il direttore della testata hanno proposto ricorso per Cassazione.
Col primo motivo, il ricorrente ha dedotto “insufficiente motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio” per avere la Corte attribuito “al testo dell’articolo un significato del tutto inconciliabile con il suo effettivo contenuto”.
Tale motivo è stato dichiarato inammissibile dalla Corte di Cassazione trattandosi di un accertamento di fatto che, in quanto sorretto da motivazione immune da vizi logici o giuridici, risultava incensurabile in sede di legittimità.
Col secondo motivo “violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c., con riferimento all’art. 595 c.c.”, il ricorrente si è, invece, doluto che la Corte non abbia considerato che l’articolo pubblicato riportava il contenuto di un’intervista, cosicché “il limite della verità” doveva “essere riferito non alla rispondenza dei dati forniti dall’intervistato alla verità fenomenica, ma al fatto che l’intervista si sia effettivamente svolta e che i concetti o parole riportati siano effettivamente rispondenti a quanto dichiarato dalla persona intervistata”, con l’ulteriore conseguenza che il giornalista che abbia riportato opinioni manifestate in termini critici non subisce limiti al proprio diritto di cronaca ove sia rimasto “neutrale rispetto alle esternazioni del soggetto interrogato”.
La Corte di Cassazione ha affermato, al riguardo, che secondo il suo consolidato orientamento “la divulgazione di una notizia lesiva della reputazione può essere considerata lecita e come tale rientrante nel diritto di cronaca quando: 1) i fatti esposti sono veri, 2) vi è un interesse pubblico alla conoscenza del fatto, 3) vi sia correttezza formale dell’esposizione che non travalichi lo scopo informativo”.
In relazione alla specifica ipotesi di espressioni diffamatorie contenute in un’intervista, la Suprema Corte ha, poi, ritenuto di condividere l’orientamento giurisprudenziale per cui “ove il giornalista si sia limitato a riportare senza modifiche o commenti le parole effettivamente dette dall’intervistato, presupposti per l’applicabilità dell’esimente del diritto di cronaca sono: a) la verità… del fatto che l’intervistato abbia effettivamente formulato, nelle circostanze di tempo e di luogo indicate dal giornalista, le espressioni riportate, che è da escludersi quando, pur essendo vere le affermazioni riferite, ne siano dolosamente o colposamente taciute altre, idonee ad alterarne sostanzialmente il significato, ovvero quando, mediante accostamenti suggestivi di singole affermazioni dell’intervistato capziosamente scelte o a mutamenti dell’ordine di esposizione delle medesime, l’intervista venga a risultare presentata in termini oggettivamente idonei a creare nel lettore o nell’ascoltatore una (in tutto o in – rilevante – parte) falsa rappresentazione della realtà dalla medesima emergente; b) sussistenza, in relazione alla qualità dei soggetti coinvolti, alla materia in discussione o ad altri caratteri dell’intervista, di indiscutibili profili di interesse pubblico all’informazione”.
Dando continuità a tale orientamento, i Giudici di legittimità hanno sostenuto che, quando la cronaca abbia per oggetto immediato il contenuto di un’intervista, il requisito della verità vada apprezzato in termini di corrispondenza fra le dichiarazioni riportate dal giornalista e quelle effettivamente rese dall’intervistato, con la conseguenza che, laddove non abbia manipolato o elaborato le predette dichiarazioni (in modo da falsarne – anche parzialmente – il contenuto), il giornalista non può essere chiamato a rispondere di quanto affermato dall’intervistato, sempreché ricorra l’ulteriore requisito dell’interesse pubblico alla diffusione dell’intervista.
Altrettanto deve valere, secondo la Cassazione, per il requisito della continenza, da intendersi rispettato ove il giornalista si sia limitato a riportare correttamente le dichiarazioni (a prescindere dal contenuto delle stesse).
Nel caso di specie, non veniva ritenuta controversa la sussistenza dell’interesse pubblico alla diffusione dell’intervista (valutato, ovviamente, in relazione al circoscritto ambito territoriale cui era rivolta la cronaca locale) né risultava posta in dubbio la fedeltà del testo pubblicato alle dichiarazioni rese dall’intervistato.
A parere del Giudice di legittimità, quindi, la Corte non aveva fatto buon governo dei principi sopra richiamati, che – ove correttamente applicati – avrebbero dovuto comportare l’esclusione della responsabilità.
Da qui l’accoglimento del motivo con cassazione della sentenza.
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