Sono 56 i giornalisti uccisi nei primi sette mesi di quest’anno. Professionisti e citizen journalist. Quasi trecento gli imprigionati se si somma chi scrive per mestiere e i cyberattivisti. La censura chiude la bocca di chi dissente anche così e non c’è nessun Effetto Streisand, quella dinamica per cui il tentativo di nascondere un’informazione ne causa la moltiplicazione in ogni luogo della rete. Quando viene eliminata la voce dissidente, semplicemente quell’informazione scompare. E tutti diventiamo più poveri e più soli.
Lo stato della censura dell’informazione in rete viene fotografato ormai da qualche anno da diverse organizzazioni internazionali, Reporters senza frontiere, Amnesty International, Electronic Frontier Foundation, e i dati che riportano sono scoraggianti. La censura è ancora il mezzo attraverso cui i regimi controllano i propri cittadini trattandoli come sudditi o, peggio, come un fastidio di cui liberarsi al più presto. Per questo è stata istituita la giornata mondiale contro la Cyber-censura, il 12 marzo.
A volte però la censura segue strade più tortuose e nascoste. Non è un fatto che riguarda solo i regimi autoritari, ma anche i paesi democratici. Le scuse per censurare informazioni scomode sono sempre le stesse: proteggere i bambini da contenuti pornografici, controllare gli scambi illegali online, proteggere il diritto d’autore o l’onorabilità di re, principi e personaggi pubblici. Come è chiaro dalla lettura dei testi pubblicati dalla Open Net Initiative Access Denied, Access Controlled, and Access Contested.
Cina. La polizia di Pechino ha annunciato appena la scorsa settimana una “vittoriosa pulizia” del web, con 10 mila ispezioni ad altrettanti internet cafe, 5 mila persone arrestate per crimini legati a Internet e 7 mila amministratori di siti web “puniti” per comportamenti pericolosi. Questa operazione di polizia è stata giustificata come “necessaria” a preservare la salute fisica e mentale della gioventù cinese. In un comunicato successivo la polizia ha minacciato i cittadini che “attaccare” il governo sarà un atto punito severamente.
Russia. In Russia sta per arrivare al vaglio del presidente Putin una proposta di “legge sull’informazione”, già passata alla Duma, la Camera bassa del Parlamento russo, con una serie di emendamenti ufficialmente destinati alla protezione dei minori. La legge prevede la creazione di una black list di tutti i siti con “contenuti on line particolarmente dannosi”, ma inseriti nella lista nera saranno tutti “i siti con contenuti pornografici, idee estremiste, idee che inneggiano al suicidio o all’uso di droghe”. Sempre in Russia in base a un altro progetto di legge (n. 106999-6) che deve ancora essere dibattuto in seconda e terza lettura, la diffamazione sarebbe nuovamente un reato punibile fino a 5 anni di reclusione oppure con una multa di 500.000 rubli, 12.500 euro.
Siria. In questo paese si registra l’ennesima detenzione di un blogger che è in sciopero della fame dal 10 luglio. Il suo nome è Hussein Gharir ed è stato arrrestato con altri quindici attivisti il 16 Febbraio scorso in un raid della polizia contro il Centro Siriano per i media e la libertà d’espressione. Altri suoi quattro colleghi sono ancora incarcerati (Hani Zetani, Mansour Al-Omari, Abdel Rahman Hamada e Mazen Darwish).
Iran. Il 4 luglio scorso Ali Moslehi, gestore del sito Kashan News e collaboratore di Jaras, vicino ai riformisti iraniani, è stato arrestato per strada. Non si conoscono i motivi della sua detenzione. Il blogger e attivista per i diritti umani Nasour Naghipour è stato invece riarrestato l’8 luglio per scontare una pena di sette anni. Gestisce il sito Nasour.net. Lo stesso è accaduto a a Mansoureh Behkish per aver fatto propaganda antigovernativa.
Cuba. A Cuba si continua a demonizzare Internet e i social network accusati di avere un’influenza destabilizzante orchestrata dagli Stati Uniti. Anche la versione cubana di Facebook, RedSocial, accessibile solo all’interno del paese, è uno strumento di sorveglianza nei confronti del mondo accademico.
Arabia Saudita. Protagonista di una durissima censura, il governo dell’Arabia Saudita usa in maniera massiccia sistemi di filtraggio dei siti web grazie a una legislazione repressiva. Timoroso dell’estensione al suo territorio delle proteste che hanno infiammato la primavera araba il governo ha bloccato tutti i siti che ne rilanciavano i contenuti come Dawlaty.info e Saudireform.com (oggi chiuso).
Vietnam. Ieri, 30 luglio, la madre di una giovane blogger vietnamita, Ta Phong Tan, incarcerata per aver denunciato sul web la corruzione nel suo paese, si è data fuoco per disperazione. Il Vietnam, dopo la Cina e l’Iran, è la terza più grande prigione al mondo per blogger e cyber-dissidenti, e conta almeno 18 netizen in prigione per aver espresso le proprie idee online.
Non bisogna dimenticare che quando si viene arrestati in questi paesi perché “scoperti” a diffondere informazioni scomode ai governi, spesso si va incontro al reato più terribbile e odioso, quello di tortura, come ha denunciato Amnesty nel suo ultimo rapporto. Perciò la Electronic Frontier Foundation ha diffuso un vademecum in cui si invitano i produttori occidentali di tecnologie di sorveglianza a non venderle agli stati autoritari e Privacy International ha deciso di portare in tribunale il governo inglese proprio per aver consentito l’esportazione di tali tecnologie a governi repressivi.
Comunque le cose non vanno bene neanche in Occidente. Dopo la legge Usa sulla cybersecurity, Cispa e il Trattato TransPacifico (TTPA), anche il nuovo accordo commerciale tra Canada ed Europa, Ceta, ripesca le peggiori proposte dell’accordo anticontraffazione Acta, tra cui l’intervento dei provider nel controllare il traffico Internet dei propri clienti e una interpretazione repressiva della tutela del copyright e dei marchi che rappresentano una forma mascherata di censura.
Opporsi a tutto questo si deve e si può.
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